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L’inferno del carcere, il racconto di chi ci lavora e qualche volta ci muore

Di Redazione |

(LaPresse) – «Lavorare in carcere è andare in guerra tutti i giorni. In tanti non arrivano alla pensione perché non reggono lo stress e scaricano sulla famiglia le tensioni. Famiglie che poi si distruggono insieme alle vite di tanti di noi». A parlare è un agente della Polizia penitenziaria. La Presse raccoglie lo sfogo di chi dentro al carcere vive, lavora e, qualche volta, muore. La media dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria è di uno al mese, oltre 70 i suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno. «Il problema principale – continua il racconto – è che manca lo Stato, qualcuno che ti sostenga. Si lavora con la paura, si vive con la paura ma non si può mostrare la paura e quindi teniamo tutto dentro». “«Il carcere ormai è diventato un compattatore dove trovi il ragazzetto tossicodipendente, lo psichiatrico, dove trovi il delinquente abituale e tutti vengono mischiati come in un frullatore anche se ognuno ha una esigenza diversa. È questo che non capisce lo Stato, così si crea un mix esplosivo», prosegue l’agente. Lavorare in carcere significa sapere quando monti ma non quando torni a casa: «Ci sono giorni in cui fai venti ore, altri sette e la giornata successive magari ne fai quindici. La mancanza di personale porta a questo – spiega ancora. Fino a che parleranno di carcere persone che non sanno nemmeno come si chiude un chiavistello i problemi rimarranno. Poco tempo fa sono stati individuati dei protocolli di intervento ma non vengono attuati perché chi dovrebbe prendersi delle responsabilità non se le prende, perché si vive nell’astratto. C’è una mancanza totale di personale, i sistemi con telecamere molto spesso sono distrutti, capita che in un padiglione con 200 detenuti ci sia un agente solo a controllare ed è naturale che in assenza di controllo poi capitano certe situazioni», prosegue la denuncia. «Dicono che aumenteranno il personale con 2000 agenti, ma che ci fai? Non ti raccontano che già siamo al di sotto di personale, non vengono conteggiate le persone che vanno in pensione, chi si congeda. Per tornare a respirare servirebbero almeno 8mila unità perché fino a che non saranno operativi i nuovi colleghi almeno altri tremila si saranno congedati perché caduti in stati depressivi o ricoverati in ospedale militare per varie patologie. Oggi ti ritrovi con sessantenni ancora in sezione con le ginocchia distrutte, patologie gravi alla schiena. Duemila agenti sono nulla. Siamo allo sbando, senza tutele né difesa».

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