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Il paradosso di Alessandro Borghi: «La patria? Non sono un italiano convinto, casa mia è ovunque nel mondo»

Di Redazione |

Il quarto giorno della Mostra del Cinema di Venezia vede protagonista il primo dei cinque film italiani in concorso: «Campo di battaglia» di Gianni Amelio, con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini. Ambientato nell’ultimo anno della Prima guerra mondiale il film racconta la storia di due ufficiali medici e amici d’infanzia che si trovano a gestire un ospedale militare, testimoni della disperazione di chi farebbe qualsiasi cosa pur di non tornare al fronte. Ne parliamo con il regista e con l’attore Alessandro Borghi. «Ho scritto un film storico, un film ambientato nel 1918 e in questo film in costume si ritrovano temi di oggi. “Campo di Battaglia” è una spinta a sentire quello che abbiamo intorno perché quello che non è ancora sotto la nostra porta di casa può arrivare sotto la porta di casa». Questo nuovo uso del termine patria, prima ci richiamavamo al paese adesso ci rivolgiamo alla nazione. Borghi: «Io non sono un nazionalista, non sono per la patria, non sono un italiano convinto, non sono un italiano orgoglioso. Mio figlio si chiama Haima perché vuol dire nel mondo e a casa allo stesso tempo. Quindi il mio augurio è sempre stato quello di sentirmi a casa ovunque io sia. È l’augurio che faccio a mio figlio e a quello che spero per il futuro. Attraversiamo un periodo storico che ci mette davanti ad un contesto politico contro il quale o a favore del quale possiamo esprimere dei pensieri però poi ognuno di noi deve lavorare sulla propria idea di libertà. Cosa vuol dire per noi essere liberi? Fa ridere che se tu metti in una stanza 50 persone, ci sarà sempre qualcuno che dira “per me la libertà è avere tutte le persone di un’altra etnia fuori da questo paese”. Per altri invece la libertà è averli tutti dentro il mio paese. Da questa cosa non ci salveremo mai. E in questo uso una parola che ha usato prima Amelio, “paradosso”: questa è, secondo me, la più grande guerra che andremo a combattere anche negli anni che verranno perché veniamo da un’educazione che è molto difficile scardinare dove dobbiamo dire: “Vabbè, ma prima…. Quando sento ancora dire “Sì, ma questi vengono a casa nostra” rispondo così: “Casa vostra” è un indirizzo civico. Se vengono dentro casa avete ragione altrimenti “casa vostra” non è una nazione, non è un Paese. Quindi tutto quello che di brutto viene dal patriottismo è qualcosa che non mi interessa». Vi arriva la chiamata in guerra fate qualcosa per evitarla? Vi auto-mutilate come i protagonisti del film, vi sparate un colpo sul piede? Borghi scherza: «Vuoi che ti faccia qualcosa io, Gianni? Io ne sono capace». Amelio: «La democrazia non provoca le guerre, quelle le provoca la dittatura. La guerra nasce da una sete di potere, da una bramosia di potere sbagliata. Vittime della guerra sono gli innocenti. E per innocenti intendo gli ultimi della terra, intendo i disperati, intendo i poveri». Infine a Borghi chiedo di questa sua naturale propensione a infilarsi nei dialetti della nostra penisola. Cosa le manca ancora: il sardo, il siciliano? «Ah ah, sì, mi mancano i popoli del sud, quelli del nord li ho già fatti un po’… L’uso del dialetto non credo sia sempre necessario, ma quando capita è un come un regalo che ci viene fatto perché ci dà sempre la possibilità di caratterizzare i personaggi e consente di fare delle sfumature. Insomma, è bello, mi diverte tanto, spero di riuscirvi: Vi saludo in veneto. Niente eh, andate a vedere Campo di battaglia… e ci vediamo al cinema».

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