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Il paradosso del Congo: perché il Paese è in cima alle classifiche delle crisi alimentari nonostante quasi tutta la popolazione si occupi di agricoltura?

Di Redazione |

Questa inchiesta è stata realizzata con il supporto del Pulitzer Center Rainforest Reporting Grant – www.pulitzercenter.org​«Siamo in una provincia a vocazione agropastorale, abbiamo circa 987 mila attività agricole, tutti vivono di agricoltura» afferma Jean Guillaume Ngbanga Masolo, ispettore provinciale per l’agricoltura, mentre guarda fuori dalla finestra del suo ufficio a Gemena, capitale della provincia del Sud Ubangi, nell’area equatoriale della Repubblica Democratica del Congo.

Siamo arrivati nella remota provincia del Sud Ubangi, lungo il bacino del fiume Congo, per capire sul campo i motivi per cui la Rdc (Repubblica democratica Congo)  è da anni in cima alle classifiche mondiali delle crisi alimentari, con oltre 25 milioni di persone, il 22% della popolazione del Paese, in una grave situazione di scarso accesso al cibo. L’Rdc vive un paradosso: può contare su 80 milioni di ettari di terreno coltivabili, ma non riesce a sfamare se stessa a causa dei conflitti, ma anche perché la carenza di soldi, strumenti e infrastrutture rendono estremamente difficile per gli agricoltori produrre a sufficienza.«La comunità è laboriosa, ma sbatte contro diverse difficoltà legate alla disponibilità di materiali, alle disponibilità economiche e alle competenze tecniche» afferma Ngbanga Masolo. Per capire meglio le ragioni di questo paradosso, abbiamo attraversato la provincia del Sud Ubangi per alcuni giorni a bordo di una moto, unico mezzo in grado di attraversare le impervie strade che collegano i centri abitati, spesso ridotte a una poltiglia di fango. 

Agricoltori o piantagioni?Il primo centro che raggiungiamo è Budjala, una cittadina di case basse di terra con tetti di foglie, separate da strade polverose di terra rossa. Qui incontriamo diversi gruppi di piccoli agricoltori. Uno dei gruppi coltiva arachidi, fagioli, soia, banane su un terreno di 10 ettari. «Non abbiamo neanche un deposito per stoccare o trasformare i prodotti»,  afferma Gilbert Mohukwalembi Abutiama, coordinatore del gruppo, indicando un piccolo capanno in mezzo al campo e mostrandoci gli unici strumenti rudimentali – alcune pale, due rastrelli, un bastone tradizionale usato per piantare i semi – che lui e gli altri braccianti utilizzano per lavorare la terra. Tutta la produzione è destinata all’autoconsumo o ai villaggi limitrofi, per l’assenza di strumenti anche minimi di stoccaggio, trasformazione e trasporto.

Questo gruppo partecipa a un progetto di cooperazione dell’associazione Solidarité pour Assistance au Développement du Congo (Sad), una Ong locale, realizzato in partnership con l’Ong italiana Gs Italia. Il progetto supporta 350 attività familiari in Sud Ubangi offrendo piccoli prestiti, intorno ai 350 dollari, per acquistare strumenti di lavoro essenziali. Il progetto prevede per i vari gruppi di coltivatori anche dei percorsi di formazione, e la realizzazione di piccole infrastrutture, come dei pozzi o un incubatore per galline.

Continuiamo il nostro viaggio, con una traversata di 80 km lungo una strada che alterna buche, allagamenti, banchi di sabbia, attraverso la foresta tropicale e una lungha serie di capanne e villaggi pieni di bambini. Dopo tre ore di tragitto, ai lati della strada la foresta tropicale lascia il passo a migliaia di file ordinate di alberi della gomma: siamo entrati nella concessione «Miluna», una piantagione industriale che si estende su circa 25mila ettari, di cui 5.000 coltivati a gomma, 1.000 a olio di palma, 500 a cacao, 100 a caffè. Fondata nel 1911, si tratta dell’unica piantagione dell’era coloniale del Sud Ubangi tornata a pieno regime, dopo che nel 2007 la famiglia belga-congolese degli Hoolans l’ha acquistata e rilanciata.Tutta la produzione della piantagione non è destinata al consumo locale, ma viene in gran parte trasportata su delle chiatte lungo i fiumi Mongala e Congo, fino alla capitale Kinshasa, dove poi viene trasformata o prende la via dell’export. Al centro della concessione di Miluna c’è un grande impianto di lavorazione. Attorno ad esso si trova il villaggio di Gwaka, dove l’azienda ha costruito e gestisce quasi tutto, tra cui una scuola e un ospedale. Secondo le informazioni che abbiamo raccolto tra gli abitanti, l’azienda impiega circa 2.000 dipendenti, anche se molti dichiarano di lavorare senza contratto, e tutti denunciano un trattamento economico insufficiente. «Danno lavoro alle persone, già è qualcosa, solo che li pagano male» afferma un ex dipendente. Secondo diverse fonti locali, lo stipendio di un lavoratore ordinario è di 16 dollari al mese, corrisposti dopo sei mesi. «Questo non gli permette di nutrire la sua famiglia e di far studiare i bambini» ha detto l’ex dipendente, «ma non essendoci altre società, sono costretti a lavorare così». I dirigenti della società Miluna non hanno risposto a una nostra richiesta di commento sulle condizioni dei lavoratori.

Due modelli a confronto

Pochi minuti dopo esserci lasciati alle spalle la piantagione Miluna, entriamo nel piccolo villaggio di Kuma, anche in questo caso una comunità che si dedica prevalentemente all’agricoltura, alle prese con elevati tassi di malnutrizione. «Produciamo principalmente colture alimentari. Coltiviamo mais, arachidi… lavoriamo molto ma la produzione è troppo bassa» ci dice Norbert Besambea, un agronomo che lavora con gli agricoltori di Kuma, facendo riferimento a sementi di scarsa qualità. Besambea afferma che il problema più grave per il villaggio non è però la malnutrizione, ma l’accesso all’acqua potabile. «C’è una sorgente a una certa distanza, ma la qualità dell’acqua è scarsa», afferma l’agronomo, spiegando che il Lumu, il piccolo fiume che approvvigiona Kuma, nasce da una sorgente nella concessione Miluna, tre chilometri a monte del villaggio. «I prodotti di scarto della fabbrica contaminano l’acqua fino a qui. Se provi a berla… lo stato, il colore dell’acqua… non è potabile. C’è una puzza..»Tutti gli abitanti con cui parliamo a Kuma ci riferiscono di episodi di inquinamento del fiume e della sorgente Lumu per mano dell’azienda. «La popolazione non può più utilizzare quell’acqua per bere», afferma Floribert Avonyima, prete originario del villaggio di Kuma, dove ha co-fondato l’Ong Sad. «A volte quando gettano dei prodotti nell’acqua, le persone non bevono più perché vedono l’acqua piena di pesci morti». Nel 2020 alcuni tecnici che stavano conducendo uno studio di fattibilità per un progetto per convogliare acqua pulita al villaggio hanno analizzato l’acqua del fiume e hanno riscontrato livelli preoccupanti di E. coli e altri batteri, nonché la presenza di inquinanti chimici. Lo studio attribuisce parte di questi problemi alla presenza di altri insediamenti lungo il fiume Lumu, ma cita anche il «rischio di contaminazione della sorgente, che si trova nelle immediate vicinanze della piantagione» di gomma di Miluna.«Nei campioni che ho prelevato sia a monte che a valle del fiume Lumu, ho trovato elementi chimici e alcuni metalli pesanti che non hanno giustificazione» ci ha detto Baby Le Vent Banunginikwau, l’autore dello studio, che abbiamo incontrato alcuni giorni dopo a Kinshasa. «L’unica spiegazione è che si tratti di rifiuti chimici derivanti dalla lavorazione dell’hevea [la pianta della gomma, ndr] che sono stati versati nell’acqua, inquinandola». 

Chi sfama il Congo?

Ciclicamente il governo congolese vara delle iniziative di sostegno per rilanciare il settore agricolo, favorendo soprattutto i produttori agro-industriali. Nell’ambito di queste iniziative, nel 2021 il governo ha istituito una «Zona economica speciale» (Sez) nella concessione Miluna per incoraggiare lo sviluppo di altri progetti agricoli su larga scala, creare nuove strade, pozzi e centrali elettriche e istituire un regime fiscale preferenziale per attrarre investimenti esteri. ll progetto mira a raccogliere 60 milioni di dollari, con il supporto dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) e dell’Agenzia nazionale per la promozione degli investimenti della Rdc, ed è in capo a una società chiamata Green Congo Development, di proprietà di Michaël Josy Hoolans, co-amministratore delegato di Miluna.«Siamo nell’agroindustria, sviluppiamo piantagioni, ma allo stesso tempo lavoriamo anche con le comunità», ci ha detto Hoolans a Kinshasa. Intervenendo a una conferenza a novembre, l’imprenditore ha detto che il governo dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo dell’agricoltura su larga scala nella Rdc, perché piantagioni come quella di Miluna possono produrre raccolti migliori, una qualità più elevata e avere una maggiore capacità di raggiungere il mercato rispetto ai piccoli produttori.Il supporto di fondi pubblici, nazionali e internazionali, ai grandi progetti industriali è però oggetto di critica in Rdc. «Quasi tutti i governi sono più impegnati nell’agricoltura industriale, motivo per cui sentiamo tanto parlare di parchi agroindustriali»” afferma Simplex Malembe, dirigente di Conapac, il sindacato nazionale degli agricoltori. Malembe sostiene che i finanziamenti pubblici per l’agricoltura sono gravemente insufficienti e che la maggior parte va a grandi progetti industriali, mentre «l’agricoltura familiare, se ben supportata, può nutrire adeguatamente il Congo». Per quanto riguarda il Sud Ubangi, Ngbanga Masolo concorda sul fatto che i piccoli agricoltori non siano adeguatamente supportati: «Ci sono alcuni progetti per quelle 987.000 famiglie di agricoltori che ho menzionato prima, ma sono sempre limitati in termini di durata e copertura» ci ha detto. «Bisogna iniziare da qualche parte: se ci fosse un progetto che potesse sostenere anche solo la metà di questi agricoltori, sarebbe di grande aiuto». 

L’impatto sulla foresta

I diversi modelli di agricoltura hanno anche un diverso impatto sulla foresta tropicale che copre la maggior parte di questa regione equatoriale del Congo – uno degli ultimi polmoni verdi del pianeta. Secondo il programma di monitoraggio forestale Global Forest Watch, la Rdc ha perso 6,86 milioni di ettari di foresta primaria umida tra il 2002 e il 2023. Nel 2023, è andata persa una superficie record di 526 mila ettari di foresta e l’agricoltura è stata il secondo motore principale della deforestazione.Diversamente da quanto accade in altre regioni del mondo come il Sud America, in Africa Centrale l’agricoltura su piccola scala è il motore principale della deforestazione: secondo uno studio pubblicato su Nature, i piccoli produttori sono responsabili del 64% della perdita di foreste tra il 2001 e il 2020. Nella Rdc la percentuale è ancora più alta, con l’85% delle perdite di foreste legate alle coltivazioni su piccola scala e il Sud Ubangi sembra non fare eccezione a questa tendenza: ad oggi aziende come Miluna sorgono su terreni gravemente deforestati in epoca coloniale, agli inizi del ‘900, anche se nuovi progetti analoghi di grandi monocolture potrebbero diventare presto nuovo motore di deforestazione: «Abbiamo un sacco di spazio. Abbiamo foreste, abbiamo savane, possiamo crearne di più», ci ha detto il funzionario del Sud Ubangi Ngbanga Masolo.Allo stesso tempo, visitando piccoli agricoltori e cooperative, ad oggi non abbiamo trovato eccellenze in termini di gestione forestale: «Un agricoltore può usare la stessa terra 3, 4 o anche 5 volte, senza mai cambiare coltura» ci ha detto a Budjala Simplice Basusu Manzikolo, responsabile del programma Sad, riferendosi alla pratica comune di esaurire il terreno e poi disboscare una nuova porzione di foresta per usare terreno fertile. Per questo, secondo Manzikolo, promuovere l’agroecologia è uno degli obiettivi fondamentali in Sud Ubangi: «La nostra formazione cerca di aiutare i piccoli agricoltori a produrre meglio e di più». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA