Roma, 31 lug. “Ci si può infilare nei panni grillini e chiedersi se si doveva proprio tenere il punto sul divieto del terzo mandato oppure no. Se alla campagna elettorale e poi al prossimo Parlamento sarebbe servita la competenza -invero non proprio scintillante- delle Taverna, dei Toninelli, dei Crimi. O se invece era preferibile, come poi è successo, tener ferma la regola che dieci anni seduti sui banchi bastano e avanzano.
Il dilemma, è ovvio, è di principio e di potere. Nasconde un conflitto tra Grillo, fautore della ghigliottina dei due mandati, e Conte, più aperto all’idea di fare come gli altri e ricandidare almeno la sua guardia pretoriana. E insieme svela una questione identitaria tutt’altro che banale. Per un Movimento che ha dovuto ammainare una discreta quantità di bandiere, acconciandosi a governare con questo e con quello e a farsi carico di provvedimenti che stridevano non poco con il suo codice identitario, accompagnare alla porta la vecchia guardia era anche un modo -l’ultimo rimasto- per rivendicare una sorta di coerenza con i miti delle sue origini.
Dunque, si capisce che alla fine l’abbia avuta vinta Grillo e che i dirigenti prossimi alla decapitazione parlamentare si siano trovati, chi più chi meno, a dover fare buon viso a cattivo gioco. Impresa che non è detto porti una gran fortuna alle sorti elettorali del M5S. Ma senza la quale è assai probabile che i consensi sarebbero stati ancora più esigui.
Si vedrà. Fatto sta che l’argomento non riguarda solo gli interna corporis di una forza che pure appena quattro anni fa raccoglieva il consenso di un elettore ogni tre. Riguarda un principio. E cioè se la politica sia solo una vocazione, o sia anche un mestiere. Se essa richieda competenza e specializzazione, o invece abbia bisogno di un certo grado di improvvisazione. Se le sorti di un paese possano venire affidate a un “ragioniere” (versione Giannini) o magari a una “cuoca” (versione Lenin). Oppure se quelle sorti abbiano bisogno di un ceto specialistico vero e proprio, un esercito di professionisti capaci qualche volta di tramandarsi le competenze e qualche altra volta (più spesso, e più volentieri) di confidare nelle risorse della propria affaticata longevità.
E qui l’argomento scivola via dalle spalle dei “grillini” e si rivolge a tutti gli altri. I quali troppe volte sembrano attratti dalla suggestione di carriere sempiterne e seggi che si tramandano di padre in figlio. Così da perpetuare se stessi e perpetuarsi tra loro.
C’è da dire che l’argomento non è affatto nuovo. Con una differenza però. E cioè che ai tempi della prima repubblica la tenace volontà dei leader dell’epoca di restare il più a lungo possibile sugli scranni parlamentari poggiava almeno sulla base del voto di preferenza, e dunque sulla possibilità che fossero gli elettori a mandarli a casa. Mentre oggi deputati e senatori vengono in gran parte eletti per una sorta di automatismo a seconda del posto in lista che i leader graziosamente assegnano loro. Dopo averli assegnati a se stessi, peraltro.
Così, sembra infine di venirsi a trovare dinanzi a una sorta di alternativa del diavolo. Se si dà retta a Beppe Grillo si finisce per decretare la decapitazione dei parlamentari nel momento più sbagliato: e cioè non appena hanno cominciato -solo cominciato- a maneggiare i ferri del mestiere. Ma se si dà retta ai volponi più attempati del professionismo politico si rischia che nessun ricambio venga mai facilitato pur di non minacciare la quasi infinita longevità dei professionisti del ramo.
Come spesso avviene, dovrebbe essere la misura a fare la differenza. In un regime ideale dovremmo poter contare nelle aule parlamentari su deputati e senatori non così improvvisati e al tempo stesso non così usurati. Speranza legittima, a cui forse gli elettori, se potessero, darebbero anche una mano. Nel frattempo, sarebbe bello se una mano la dessero anche i partiti -vecchi e nuovi”.