Diana Angela Formaggio (ANSA) – ANCONA, 21 NOV – Quando entra in una casa per soccorrere una donna che ha chiesto aiuto la prima cosa che fa è “abbracciarla, farla sentire sicura”, quando è in pattuglia e qualcosa non le torna, interviene senza esitazione e non si ferma neppure quando si tratta di gettarsi in un inseguimento per fermare un fuggitivo in auto. Alle donne vittime di violenza dice “non perdonate, non nascondetevi i segnali che vi dicono quest’uomo è tossico e vi fa male. Non c’è amore dove c’è violenza”. E non sono solo i pugni e le sberle che devono preoccupare “c’è la violenza psicologica che è ancora più grave che rende succubi ed è la meno riconoscibile dalle vittime”. Lei è Cristina Brignolo, 38 anni, Piemontese di origine, tre figli di 13, 10 e quasi 5 anni, l’unica donna al volante del Nucleo Radiomobile dei carabinieri di Ancona, “ho lottato per far parte del nucleo Radiomobile, c’erano resistenze ma il mio generale ha avuto fiducia in me”. Operativa su turni h24, sempre in prima linea nel rispondere alle chiamate, una forte empatia verso chi soffre una sola preoccupazione “con quello che vedo ho paura di essere troppo dura con i miei figli”. “Non ho paura e non mi tiro mai indietro” anche se ogni tanto “il mio collega deve tenermi a bada”. Le emergenze che affronta quotidianamente sono soprattutto i “codici rossi e la droga”. Ma è la violenza di genere “non solo di mariti, compagni presenti o ex, ma anche, dei figli verso i genitori, soprattutto le madri” a non darle tregua, a farla soffrire quando non riesce a “liberare” la vittima e a convincerla che “una alternativa c’è sempre”. Soffre quando la donna non vuole denunciare: “abbiamo le mani legate – ammette – e allora entra in gioco la capacità di convincere la vittima che non è sola, che ci sono le associazioni e le strutture protette che possono accoglierle anche con i loro figli”. Cristina affronta ogni giorno, insieme ai suoi colleghi, situazioni critiche ma “è quello che ho scelto e per cui mi sono battuta, aiutare le persone e farlo per strada al volante della gazzella, senza esitazioni”. “Un giorno – è il suo racconto – siamo intervenuti dopo la chiamata al 112 di una bambina di 7-8 anni che sentiva le urla della madre. L’ex compagno l’aveva aspettata fuori e l’aveva picchiata. Non era la prima volta e la figlia, nonostante fosse terrorizzata e forse perché istruita dalla mamma, ha dato l’allarme. Siamo arrivati subito, l’uomo ci aspettava fuori dell’abitazione. ‘Sono stato aggredito’ – si è giustificato con il mio collega – era convinto di non aver fatto nulla di male. Mi sono precipitata all’interno dell’appartamento. Ho trovato la bimba scossa e la donna terrorizzata. L’ho abbracciata e rassicurata, ho chiamato il 118 e intanto abbiamo fatto avvisare i genitori”. Dopo i primi momenti chiedo cosa le accade. “Inizia un dialogo in cui spiego che lo può denunciare, le dico che può chiedere di andare in una struttura protetta”. E la convinci? “Purtroppo spesso la donna ritiene di essere lei il problema, perdona la violenza quando non c’è un danno grave ed evidente”. In quel caso la donna ha poi denunciato l’ex compagno ed è scattato il braccialetto elettronico “una soluzione non sempre sufficiente” e “purtroppo nel 90% dei casi prevale la paura a denunciare e per me è una sconfitta perché so che le violenze si ripeteranno”. Non riuscire a dare consapevolezza alla vittima che “vive in uno stato di costrizione, o dove la gelosia è già degenerata nel controllo totale” per Cristina significa aver perso. “Io mi immedesimo nella donna, nella paura che leggo negli occhi dei loro figli, non posso farne a meno” e “se vedo qualcosa che non mi quadra devo andare fino in fondo anche se purtroppo non sempre si riesce a far accettare una prospettiva diversa”. Cristina è ‘tosta’ dicono i colleghi lei abbraccia le vittime anche se “non è una cosa da carabiniere” si schernisce.