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L'INTERVISTA

Tuccio Musumeci in scena con “La pensione Eva”: «Le signorine? Ci andavamo tutti. I primi soldi me li diede mio padre…»

L'attore catanese e l'amarcord dell'Italia che fu: «La guerra era finita da poco e la cosa bella era che, terminato di studiare, eravamo tutti abbiàti ne’ casini»

Di Carmelita Celi |

Per una volta, il martellante, finanche grottesco “politically correct” non è retroattivo ma ante litteram.Non “prostitute”, dunque, ma “signorine”. Così si chiamavano – nel secondo dopoguerra, probabilmente nel primo e prima ancora – le ragazze che dispensavano eros a pagamento. Rigorosamente al chiuso in dimore la cui denominazione “passeggiava” da “casa di tolleranza” a “casino” finché chiuse lo divennero davvero dopo la legge Merlin del febbraio 1958.

A testimoniare, ricordare, raccontare – nessuna irriverenza nei confronti delle donne né celebrazione della mercificazione del corpo femminile, solo un colorito e colorato spaccato di mondo – le “signorine” (Erminia in arte Iris, Emanuela Ritter in arte La tedesca, Maria in arte Lupa…) sono due pezzi di storia, ciascuno a suo modo ma di eguale autorevolezza.

Due pezzi di storia

Andrea Camilleri e Tuccio Musumeci. Il primo alla sua ben nota e frequentatissima cornucopia letteraria aggiunse, nel 2006, «una vacanza narrativa», diceva lui, “La pensione Eva”, garbato e (s)costumato “Bildungsroman” di sesso e dintorni del giovane Nené nelle navi-scuola dove «i mascoli si possono affittare fimmine nude». La pensione Eva, tra l’altro, esisteva davvero («una villetta incantevole» di Porto Empedocle), Nené era il vero diminutivo con cui chiamavano lo scrittore ma, insiste lui, non è autobiografia.

L’altro pezzo di storia, di costume e di teatro specialmente, Tuccio Musumeci, sarà protagonista di “La pensione Eva” in scena al Teatro Brancati di Catania da giovedì prossimo, complice indispensabile Giuseppe Dipasquale che ne firma regìa e adattamento, e di quelle singolari “scuole di vita”, odorose di permanganato e dei “pessimi profumi” delle ragazze – Tuccio fu disciplinato, affezionato frequentatore.

Ai tempi era già “màscolo grande”, Tuccio?

«Quanto bastava, si era ammessi dopo aver compiuto 18 anni e non c’era modo di barare, i controlli di polizia erano frequenti, una carta d’identità taroccata poteva costare la chiusura del casino. Ce n’erano alcuni che davano accesso anche ai minorenni ma in altri siti della città, via delle Finanze, per esempio. Noi, studenti di liceo, andavamo altrove. La guerra era finita da poco e la cosa bella era che, terminato di studiare, eravamo tutti abbiàti ne’ casini».

Non ne fece mistero neanche lo scrittore Giuseppe Bonaviri che, tra i suoi ricordi di giovane studente di Medicina, a Catania, ne metteva uno, confortevole oltre che confortante. Intirizziti nelle camere in affitto, «ci si andava a riscaldare nei casini», raccontava.

«Non erano tutti uguali, eh! C’erano chiddi scassi pe’ suddati: signorine più attempate, si pagava 110 lire, una serie di panche su cui sedersi in attesa. Noi, invece, pagavamo 550 lire, una cifretta per allora. La prima volta, i soldi me li diede mio padre. “Vai a svezzarti”, mi disse. Quando lo venne a sapere mia madre, ci fu l’infennu!!! Papà avrebbe voluto chiedermi qualcosa, siiiii, figurarsi, non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi, tantu m’affruntava!».

Che aria tirava?

«Pace assoluta. Erano appartamenti eleganti, salotti ben arredati, spesso passava il cameriere che serviva il tè. In stanza, dalle ragazze, vedevamo, sul tavolo, libri di storia, di medicina. Moltissime di loro studiavano e, dopo il ’58, alcune fecero ottimi matrimoni. Un direttore di banca di Catania lo dichiarava senza problemi: aveva sposato una delle “signorine” e la definiva la migliore delle mogli».

Le capitò d’invaghirsi d’una di loro?

«Mai, malgrado fossero tutte d’una bellezza mozzafiato. Le gambe, specialmente! Da quelle eravamo conquistati, noi, maschi italiani dell’epoca. Fu la grande intuizione di Macario. Così come Catania fu la prima città a battezzare il suo sodalizio con Wanda Osiris».

In che senso?

«C’era una volta, a un passo da piazza Verga, l’Arena Esposizione. Ci andavamo tutti. Quella sera, però, la moglie di Macario, Mariuccia, era da sola, lui era impegnato in un altro teatro. Ma lei gli raccontò prontamente: “Ho visto uno spettacolo in cui c’è una ragazza che non sa né cantare, né ballare, né recitare ma, appena appare in scena, si ferma tutto”. Lui s’incuriosì».

Regali alle signorine?

«Qualcuno li faceva, noi pagavamo alla cassa una volta che la ragazza scendeva con il gettone da consegnare alla signora. Le signorine pagavano vitto e alloggio ma i proventi erano loro».

E i proprietari delle “case”?

«Perfetti sconosciuti, nessuno li vedeva mai. A Catania si parlò di un ufficiale dell’aeronautica e di un tabaccaio ma chi gestiva tutto era la maîtresse».

Al Suo personaggio, il cavaliere Lardera che, a 80 anni suonati, andava alla Pensione solo perché “s’arricriava con l’occhi”, i giovani clienti chiedono un parere sulla “nova quindicina”. Cioè?

«Lo Stato spostava le ragazze ogni quindici giorni da una città all’altra, da una regione all’altra. Qualcuna faceva richiesta di tornare nella stessa “pensione” ma era a giurisdizione dello Stato che, peraltro, ogni venerdì, provvedeva alla visita medica, venivano in due, ginecologo e generico. Il lunedì era giorno libero per sbrigare faccende in banca, alla posta. Sabato e domenica, gran folla con tutti i clienti dalla provincia. A volte, incontravamo le signorine da Caviezel di via Etnea, belle come il sole, comportamento irreprensibile. Nel ’59, ne incontrai una addirittura a Roma. Ero in tournée con l’allora Ente Teatro di Sicilia e si era al bar Ruschena, frequentato da attori siciliani che avevano lavorato con Musco ed erano passati al doppiaggio. Lei mi venne incontro, sorridendo. Stentai a riconoscerla finché mi disse: “Dopo che le case sono state chiuse…”».

Incidenti “diplomatici”?

«In realtà, no. Succedeva semmai che i patri s’incuntravunu ch’e figghi no stissu casinu, l’ho raccontato anche nel mio spettacolo “Addio, vecchio Sangiorgi”. Fu alla pensione Primavera, nei pressi della stazione. Nessuna rissa, però».

Camilleri descrive cartate di pesce fumante e sapide cene con le “signorine”. Accadeva anche questo?

«Io ricordo che i clienti più affezionati, me compreso, il primo giorno dell’anno nuovo erano invitati a cena con le ragazze. Cuoco eccezionale, cibo buonissimo. Nel fatidico 1958, invece, girammo tanti casini, anche fuori dalla Sicilia, per un brindisi d’addio. Quanta gente facoltosa! A proposito, mi viene in mente una commedia deliziosa ma non riesco più a trovare il copione».

Una “Pensione Eva” bis?

«È di autore non siciliano, ambientata nella Seconda Guerra. Parla di un signore con famiglia che, colto per strada dai bombardamenti, trova rifugio proprio nel casino che frequentava. Alla moglie, però, disse: “Andiamo dalle mie cugine!”. E senza andar troppo lontano, un noto avvocato siciliano, felicemente sposato con prole, pare sia morto proprio là. In un casino».

Camilleri non risparmia la staffilata sulla nave di feriti tedeschi approdata a Porto Empedocle. Furono accuditi dalle “picciotte”, in abiti castigati e con madame al seguito. A bordo, conobbero «lo scuncerto, lo scanto, l’orrore».

«Per carità! So com’è! Mi fa impressione ancora oggi».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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