Lo vedi e (soprattutto), lo ascolti in concerto. E ti verrebbe voglia di vederlo e rivederlo ancora. Perché, come accaduto lo le venti date tutte d’un fiato, lo scorso marzo, al Teatro Garbatella di Roma, Francesco De Gregori è uno spettacolo nello spettacolo. Il suo, quello delle canzoni, ma anche il pubblico, il “suo” pubblico. Ipnotizzato, ammaliato, innamorato. Di lui e delle sue canzoni. Poche settimane fa, a Catania su invito dell’Associazione Diplomatici di Cladio Corbino, ha giocato al domatore di leoni nel Teatro greco-romano. Elegante nel look e nelle movenze, come un vero principe della musica e della parola. Martedì sera, invece, ha dato il “la” al suo nuovo tour dalle Terme di Caracalla, altro gioiellino di questo museo a cielo aperto chiamato Italia che, domani, lo vedrà protagonista al Teatro antico di Taormina per tornare ancora, il 25 luglio, al Teatro di Verdura di Palermo.
Il principe della musica d’autore, ciarliero come non mai, prima del debutto romano si è concesso ai giornalisti, spiegando i motivi che lo hanno sprinto ad affrontare questa “scommessa”, portando i suoi successi in tournée con la Gaga Simphony Orchestra diretta da Simone Tonin e composta da quaranta elementi, dal quartetto degli Gnu Quartet, (Raffaele Rebaudengo alla viola, Francesca Rapetti al flauto, Roberto Izzo al violino e Stefano Cabrera al violoncello), e dalla band che lo accompagna ormai da lungo tempo (Guido Guglielminetti al basso, Carlo Gaudiello al pianoforte, Paolo Giovenchi alle chitarre, Alessandro Valle alla pedal steel guitar e al mandolino e Simone Talone alle percussioni) e dalle due coriste Vanda Rapisardi e Francesca La Colla.
Questa operazione, dopo il “furto per amore” dei brani di Bob Dylan, dimostra come la sua musica non sono non ha tempo, ma ben si adatta a stili differenti. Cosa spinge un artista ad intraprendere strade apparentemente differenti rispetto al percorso “abituale”?
«La canzone è un qualcosa di vivo, non si può pensare ad essa come a qualcosa che rimane inalterato dall’inizio al termine o, ancora, pensarla come a qualcosa che non si possa toccare. La musica è liquida, anche in questo senso qui, e non solo la musica pop, la musica leggera. Cambia anche la musica classica. La musica non si presta a stare ingessata. Sta, io credo, all’onestà dell’interprete o del cantautore riconoscere i cambiamenti che sono avvenuti negli anni e, quindi, non volersi imporre e non imporre al pubblico quello che è stato nel tabernacolo: se io facessi “Rimmel” come era nel 1975, sarebbe un falso in atto pubblico, perché non si può più fare così, io non ci sono più, “Panta rei”. De Gregori del ‘75 già nel ‘76 non c’era più, e poi non ci sono più quei musicisti, quegli impianti, quegli strumenti, e quindi la canzone è viva. Questo è un privilegio che hanno le canzoni rispetto alle arti espressive. Penso, ad esempio, alla pittura: un pittore una volta che fa un quadro e lo espone in un museo non può il giorno dopo tornare e dare una pennellata diversa, può farne un altro. Lo stesso un regista. Fellini che dopo un anno rivede “8 e mezzo” magari gli viene l’idea di cambiare qualcosa ma non può farlo. Chi scrive e canta canzoni se lo può permettere e io me lo permetto, senza scandalizzare nessuno. Come avrete sentito, le canzoni sono filologicamente rispettate al 100%».
Quello in Sicilia è un ritorno a poca distanza dal precedente concerto che ha tenuto (per pochi intimi) al Teatro greco-romano di Catania. Adesso la aspetta (e non è la prima volta) il Teatro antico di Taormina. Quanto influisce l’ambiente circostante nella sue performance? E cosa offre in più, rispetto a un teatro o ad un palazzetto, un sito con dietro una storia millenaria?
«Ovviamente una differenza estetica importantissima. Certi posti ti danno un’emozione importante. Sono posti della storia dell’arte. Penso a tanti artisti americani che non hanno posti con questa storia alle spalle. Sarei un imbecille se dicessi che i luoghi sono indifferenti. Detto questo, il rapporto tra la mia musica e il pubblico è comunque lo stesso. A me piace proprio fare concerti, anche sotto i portici e in discoteche in disuso, nei campi sportivi sperduti. Mi piace fare musica, lo faccio con la stessa gioia e la stessa fierezza quando faccio un concerto».
Qual è stato l’approccio ad un’orchestra sinfonica e con quali criteri sono stati scelti i brani da inserire nella scaletta del tour?
«È come avere dei figli, ogni giorno li vesti in un modo o in un altro, però alla fine sempre figli sono. La struttura, la spina dorsale delle cose che ho scritto, non è cambiata. Questa cosa non ha preso il sopravvento sulle canzoni, sulle parole, è solamente un’integrazione che sviluppa delle dinamiche, delle linee melodiche che erano sottintese nella struttura originale e che ora ho portato allo scoperto, grazie a come sono state arrangiate e all’orchestra. Questo era il progetto: anche il fatto di tenere la mia band all’interno di questo spettacolo nasce proprio dalla necessità di non abbandonare, ma anzi alimentare il modo in cui le canzoni sono nate. Questo rimane, non viene annullato o cancellato. C’è in più qualcosa che si compenetra. L’orchestra cambia tutto, quindi in ognuna ho trovato qualcosa. Anche ne “La donna cannone” nonostante il nuovo arrangiamento sia molto simile all’originale … per non parlare di “Generale” o “Pablo”. La musica deve essere sempre una sorpresa, a parte l’orchestra».
A proposito di “Pablo”, una canzone che non portava sul palco da un bel po’ di tempo. C’è un motivo particolare per il quale “Pablo” è rimasto relegato in panchina?
«No, il motivo è che la gente mi ha sempre chiesto perché non la facessi. “Pablo” è un pezzo che poteva proprio essere fatto con l’orchestra, ha una certa solennità. Io l’ho provato, ci sono dei punti in cui vai in alto, che quando hai l’orchestra dietro hai un risultato lirico importante. Con la band l’ho fatta una sera alla Garbatella. Funziona ancora. Se la fai voce e band può funzionare, anche meglio con una grande orchestra. È sempre stato percepito come un pezzo politico? No! Io non ho mai scritto pezzi politici. È ispirato alla lettura dei “Malavoglia”. Non è per questo che non la faccio da parecchio tempo e non è che la faccio perché sono improvvisamente diventato rivoluzionario… è musica».
(Foto Umberto Poto)