Lunetta Savino fa di Medea una confessione domestica da schermo tv

Di Carmelita Celi / 19 Luglio 2020

Siracusa – Vero è che la tragedia non abita più le “cento stanze” della nostra esistenza, “cento stanze”, diceva Annabella nella “Fiaccola sotto il moggio” di D’Annunzio, esempio indiscusso di tragedia greca, l’ultimo, forse. Vero è che la tragedia è in transumanza e dove non c’è tragedia c’è dramma borghese ma “Da Medea a Medea” (da Euripide e Antonio Tarantino) con Lunetta Savino, musiche dal vivo di Rita Marcotulli, regia di Fabrizio Arcuri, al Teatro antico di Siracusa per conto dell’Inda – è decisamente tragedia in monovano con angolo cottura. E dire che la (ri)composizione del capolavoro di Euripide curata da Margherita Rubino è tutto ciò che un interprete contemporaneo può desiderare: fluida, accorta, precisa, diretta, frutto di un’autorevole militanza da grecista ma anche di critico di spettacolo e donna di teatro, curiosa e vivace oltre che studiosa.
E invece Lunetta Savino – abito rosso (Paolo Isoni), rossa la fascia ai capelli, rosso il taglio di luce su cui fa la sua entrata tra gli spettatori prima di raggiungere il palco-cavea – ne fa una confessione domestica, non lamenti ma lamentele sul marito fedifrago e sappiamo bene quanto la complessità euripidea e del Mito tout court vada oltre il “semplice” adulterio.
Racconta il suo piano pluriomicida (prima la sua rivale in amore ed il padre di lei, poi i figlioletti suoi avuti da Giasone) come fosse una figurina di Agatha Christie.

Il cinema è una grande illusione e al cinema la Savino ha dato non poche prove d’apprezzabile credibilità ma la televisione può diventare una piccola illusione. Piccola, sì, ma tutt’altro che innocua ché lascia intendere che la recitazione abbia una sola grammatica, una sola sintassi, un solo modo d’essere e di farsi. Lo schermo come la scena, insomma. E naturalmente così non è. Il lavoro dell’attore su se stesso – avrebbe detto Stanislavskij – necessario ad animare Cettina del “Medico in famiglia”, Felicia Impastato, la madre coraggio di Fulvio Frisone ha poco a che fare con il verbo teatrale. E men che meno con la tragedia – nonostante la vita di alcune di loro sia stata una tragedia – in cui Lunetta si muove come in una lingua straniera, tenta di semplificare, ridurre, “sgravare” di una responsabilità specialissima ed unica, il Mito. La “verità” di cinema e tv le è consona, la mistificazione del teatro non le si attaglia e poco importa se in teatro si è formata.

Non vi è dubbio che, poi, guadagna quota in “Cara Medea” di Antonio Tarantino (storia sarcasticamente cenciosa e a suo modo catturante di tradimenti e infanticidi nella ex Yugoslavia tra tedeschi e titini) non tanto per le solite facilonerie di sicura presa e sicura risata (riassumendo: cazzoculostronzocoglionepompino) quanto perché Lunetta-Medea si cuce l’abito a pennello e lo fregia di comodo vernacolo pugliese in cui certamente lei è una scheggia. E lì scatta l’applauso. Non è un caso, peraltro, che Rita Marcotulli “the pianowoman” – qui giocoliera tra “staccati” alla Albeniz di “Asturias” e melodie austere e struggenti in odore d’eccellenti soundtrack anni ’70 – che, fino a quel momento, era stata alter ego e “altra voce” della Savino, in “Cara Medea” lasci significativamente che l’attrice se la canti e se la suoni da sé ed abbandona pianoforte e palco. Il lutto s’addice ad Elettra, la tragedia non s’addice a tutti ma ce ne faremo una ragione. That’s entertainment.

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Redazione
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