Da domani in anteprima e fino a sabato 31 luglio la rassegna "Evasioni" del Teatro Stabile si chiude con "La pacchiona", dal testo di Neil LaBute, in scena al Palazzo della cultura di Catania. Di seguito le note del regista, Marcello Cutugno.
Il tema dell’essere “carini”, esteticamente gradevoli e socialmente omologati, è centrale in Fat Pig (da cui è tratta la nostra versione siciliana del testo originale), come in altri due testi dell’autore americano: La forma delle cose e Reasons to be Pretty, a formare quella che lui stesso definisce “Trilogia della bellezza”. L’idea di trasportarla in Sicilia nasce dalla mia collaborazione con Paolo e Federica, attori con cui condivido un’idea di teatro vivo, calato nella realtà e nel divenire del nostro tempo. Come è stato messo in risalto da Thomas Bell, professore universitario di geografia urbana, nel saggio contenuto in Neil LaBute: A Casebook, è lo stesso LaBute a suggerirci che i suoi testi, non avendo quasi mai una reale collocazione geografica, sono scritti per poter adattarsi ad ambientazioni differenti. D’altra parte, Fat Pig è anche un testo sul concetto di diversità.
E, nel meridione d’Italia, l’inclusività e l’accoglienza nei confronti di chi, in un modo o nell’altro, diverge dalla norma – o dal cliché – non possono, ancora oggi, darsi per scontati. Il meridione, e la Sicilia in particolare, ha inoltre una fortissima cultura del cibo, spesso visto come un collante sociale. Ma il cibo è anche rifugio, valvola di sfogo e rimedio contro l’insoddisfazione di cui un individuo emarginato è facile preda.
Il testo, dedicato da LaBute a David Mamet, suo idolo in gioventù, racconta la storia di Tommaso, un milanese trapiantato in Sicilia, che si invaghisce di Elena, una bibliotecaria gentile, simpatica e dai molti talenti, apparentemente perfetta per lui se non per il fatto di essere una “taglia molto forte”. Le chiacchiere e le ironie sulla grassezza di lei da parte degli amici saranno per Tommaso il principale ostacolo al rapporto. L’aspetto fisico, infatti, non deve deludere i gusti dell’ambiente sociale a cui apparteniamo: molti tra i personaggi di LaBute finiscono quindi col permettere al giudizio degli altri di dominare le proprie vite e di determinare le proprie scelte, anche a costo di rinunciare alla felicità in nome del pensiero comune. Ma mentre Tommaso è vittima suo malgrado di questa dittatura della bellezza, Elena sembra essere a suo agio nonostante il mondo esterno cerchi di escluderla. Lei, d’altra parte, ormai così abituata a non essere vista, abita il suo “mondo parallelo”. Il suo appartamento, il suo rifugio sicuro, in cui le fanno compagnia i personaggi e le scene dei vecchi spaghetti western (nell’originale film di guerra), solitamente parte di un immaginario prettamente maschile.
Lo spettacolo segue lo stile del teatro da camera, citando l’Intima Teatern di August Strindberg e puntando i suoi atout sulla recitazione relazionale e sulla credibilità dei personaggi. Una scena essenziale e simbolica, firmata da Luigi Ferrigno e Sara Palmieri, che veicola rimandi al contesto ed ai tremi della narrazione. Gli elementi scenici, agilmente, si adattano e trasformano con l’evolversi della vicenda, sfruttando lo spazio in modo da coinvolgere lo spettatore nell’azione, soluzione adatta a una pièce che racchiude in sé una forte carica empatica e veicola una matrice sociale fortemente allusiva al contemporaneo.
Come nella tradizione postmoderna, sarà il pubblico a dover trovare le risposte alle azioni degli attori in scena e, una volta tornato a casa, a rivolgere lo sguardo su sé stesso. È questa l’amara catarsi di LaBute: offrirci un’occasione per guardare a ritroso le nostre vite, per rifare il doloroso conteggio di tutto quello che ci è stato dato e tolto, di tutto quello che noi abbiamo lasciato andare, e di tutto quello che gli altri ci hanno fatto credere. Un inventario crudele, di una vita forse solo apparentemente felice, che in realtà è stata una continua guerra piena di sconfitte e con pochissime vittorie sul campo. Almeno fin qui.