siracusa
La “fura” diabolica delle Baccanti incanta il Teatro Greco
Siamo tutti Dioniso. «Todos somos Baco». Con uno striscione così va in scena «Baccanti», donne modernissime, ragazze dei nostri giorni, Baccanti «furere» e cioè rappresentate dal regista della Fura dels Baus, il catalano Carlus Padrissa
Estremi, provocatori, teppisti, tribali, violenti. Nulla di nuovo sotto il sole di “Baccanti” e nulla di più congeniale allo spirito “furero” di Carlus Padrissa, anima, corpo e mente di La Fura dels Baus, che ha consegnato ieri, al Teatro greco di Siracusa per la stagione dell’Inda, la tragedia di Euripide (nell’italiano di Guido Paduano) di cui l’artista catalano firma regia, scene e musiche, coreografia di Mireia Romero Miralles, costumi di Tamara Joksimovic. Todos somos Baco. D’altri possibili sottotitoli (La carriera di un dio, Storia di un bastardo respinto, Le ossessioni di Penteo) lo slogan furente e “furero”, fintamente giacobino sembra mangiarseli tutti. Come le invasate di Dioniso con le amate prede, come il sangue dalla testa di Penteo che, negli anni ’70, Wole Soyinka fece “transustanziare” in vino nel calice della madre Agave. Siamo tutti Dioniso e Penteo, però. Hic et nunc, Euripide è manifesto inchiodato d’inchiodante ambiguità: Dioniso è uomo e dio, Penteo vede due soli e due città ed è “io diviso” tra governatore incorruttibile e groviglio di desideri repressi. E due sono le schiere di baccanti: Padrissa ne lascia un “plotone” a terra, sfrenata, urlante, forsennata baraonda che si mescola al pubblico invitandolo sul Citerone mentre l’altro coro è sospeso a 40 metri da terra da una gru lunga quasi il doppio. E’ ipnotico caleidoscopio di carne e sangue, sono funamboli del diavolo o meglio di un lucifero cacciato dall’Olimpo. E danno vita, le baccanti volanti, ad infiniti gruppi laocoontici, composti e scomposti in un’inquietante giostra del vivere e morire, ciclicamente irrorati da sangue-vino: il circo di corpi sollevati sempre più in alto si apre poi a corolla su cori a cappella, a metà tra sonorità sarde e macedoni. E, ça va sans dire con la Fura dels Baus, la scena è prevedibilmente abitata da “machinae”. Anche in questo caso, con modernissima e quasi mai immotivata “fura” che si predica da sempre di strutture metalliche e detriti della produzione industriale, Padrissa dimostra che quanto più il segmento dell’anello si spinge in avanti nel tempo, tanto più finisce per ricongiungersi all’antico. Sicché se a riassumere la nascita di Dioniso è un immenso, ferroso, altissimo, ultratitanico “deus ex machina” (Zeus in Semele) che, divaricati gli arti inferiori, “espelle” un fagotto di neonato, d’altro canto, è la gigantesca, metallica testa del dio bastardo, ora pericolosamente adulto, a partorire invasate, allucinate “conversioni”. Giacché Dioniso è sacerdote di sé stesso. A ribadire il legame con le radici del mito è l’albero genealogico segnato in gesso come teorema inoppugnabile che occupa metà della scena, da Urano a Dioniso non senza lo sciagurato Penteo, passando rigorosamente per lo “snaturato” padre Zeus. L’infezione morale combattuta da Penteo mentre il rivale Dioniso promette felicità e dà orrore, si consuma in una filarmonica di motori e suoni meccanici ma anche di vocalizzi ubriacanti, a metà tra native American e sonorità arabe delle corifee (la talentuosa direttrice dei cori, Simonetta Cartia ed Elena Polic Greco), l’organo come da rito funebre del massacro e incursioni nel rap (Domenico Lamparelli). Brancolando dietro ad un testone metallico con braccia che escono dai buchi degli occhi a denunciarne la mitica cecità, il Tiresia di Antonello Fassari è sornionamente compito e compiuto nelle sue lezioni di teologia a Penteo che in Ivan Graziano trova un castigatore di costumi dal tratto infantile che ridimensiona quando cede fatalmente a un ignoto sé stesso. Non c’è tutta la complessità di Cadmo, ora politico opportunista ora grande padre annichilito dal dolore, in Stefano Santospago (rievocare la moglie Armonia intonando “La stagione dell’amore” di Battiato proprio no, grottesco) che riprende quota nella scena madre con Agave a cui Linda Gennari restituisce graduale, intenso spessore tragico. Assai convincenti le “cronache in diretta” dei messaggeri Francesca Piccolo, Antonio Bandiera, Spyros Chamilos. Al dio dello strepito un’artista da strepito. Lucia Lavia è un “attore” nel senso più ontologico del termine: chioma fulva, volto appena bistrato, il suo Dioniso non scimmiotta guerrieri “machos” (come taluni Eracle) ma conferisce a maschile e femminile quanto serve per una sintesi divina. Canta nel modo forse più aderente ad una verità storica che ancora ignoriamo, affabula, avvince, cambia registri vocali a meraviglia, è chimica ideale di physique du rôle e teatralità (pre)potente. Il téatron di “Baccanti” comincia e finisce con lei.