“Eccola, la sanguinaria!”, l’apostrofa Seneca, per voce d’Elettra, prima ancora di “mostrarla”.
Annegata in un mare di colpe, Clitemnestra. Da sempre. Ci insegnano a condannarla sin da quando cominciamo a sillabare i primi versi dell’“Odissea”: donna di passioni letali, accetta d’indentificarsi con il genio familiare degli Atridi e farebbe di tutto purché il demone della stirpe d’Agamennone vada a nutrirsi di altre stragi.
E le ragioni di Clitemnestra?
Sotterrate, tutte. La squinternata e bellissima madre della Tragedia, quella puntuta, rocciosa, di forza primigenia di Eschilo, è soffocata da generosi drappeggi regali, chiome chilometriche, invadenti décolleté. A lei solo orrore, crudeltà, sconsacrazioni.
Perciò è sensibile, urgente e, a suo modo, controcorrente la scelta di Roberto Andò che con “Clitemnestra” – di cui firma regia e adattamento, al Verga fino al 19 per lo Stabile di Catania, protagonista Isabella Ragonese – s’avvale di un inconsueto “detective” letterario. Non già il conclamato, “consumato” Ghiannis Ritsos (che non di lei scrisse per il teatro ma di Elena e di Crisotemi di cui la Ragonese fu magnifica interprete all’Inda) ma uno che ha la vocazione di “walking along the border” (titolo di una sua opera) ovvero camminare sul confine tra ciò che è stato detto e ciò che non si deve dire: l’irlandese Colm Tòibìn, autore di “La casa de nomi”. Da qui, Andò (ri)trae la sua regina “en robe noire” (in bianco solo al finale secondo i costumi di Daniela Cernigliaro, felicemente senza tempo tra pastrani, tuniche, veli) come d’antica eleganza ormai dismessa.
A darle volto, corpo, veemenza e politica nel senso più “ecumenico” del termine, è un’attrice che, parafrasando Tòibìn, conosce bene l’odore della sfida, intellettuale e artistica, e rilancia con mirabile “engagement” di studio e talento.
Micene è un mattatoio.
Algida e sinistra, più desolata di una “wasted land” e più squallida del più squallido dei manicomi dell’era pre-Basaglia, la scena di Gianni Carluccio (anche alle luci) è inchiodante, paurosa, inappellabile: disposta su due piani in verticale, non fa fatica a convertirsi in diversi luoghi deputati. Non solo l’ombra della reggia che fu ma anche ottuso fronte di guerra – al piano “superiore” è il tremendo, rovinoso dialogo tra la regina e Achille che le rivela il vero motivo per cui Agamennone ha convocato lei e la figlia (“Allora non lo sai…Possibile che non lo sai…”), camera e anticamera di tortura, mortifera sala da bagno per l’Atride inesorabilmente nudo e finanche “bocca” d’inferno come nei teatri elisabettiani, per seppellire nel silenzio l’invasata madre d’Ifigenia. Quest’ultima, ora “detersa” da Clitemnestra, che sibila un pianto sordo e riarso, ora (de)portata da una saputa e impietosa popolana, a metà tra aedo donna e strega di “Macbeth” (Katia Gargano).
Le ragioni di Clitemnestra. O quante volte, o quante.
Qui ed ora, però, nessun rimando alle “altre” scelleratezze di Agamennone che, considerandola trofeo per le sue prodezze (ne aveva ucciso il primo marito e il figlio), scambiava lo stupro per corteggiamento. Nossignore. Lei è “solo” la sventrata madre d’Ifigenia, “casta inceste”, sacrificata agli dei perché essi soffiassero venti favorevoli alla titanica flotta greca.
Ciò diventa corpo vivo e agonizzante di “narr-azione”, ritmi agilissimi e asciutti seppure grondanti commozione. E’ morsa e morso di sorprendente lucidità, d’intensità emotiva che non concede respiro. Ed è, poi, lingua e linguaggio – teatrale, concettuale, filosofico e perché no, religioso – in cui non serve attualizzare, modernizzare, sfrondare perché si tratta d’ingombrante, riconosciuto presente.
E’ l’isteria del Tempo di Guerra.
“Tutti sapevano e nessuno ha parlato”. Il canto straziante di Ifigenia e quello straziato di Clitemnestra toccano tante corde dell’essere musica (Pasquale Scialò): la lama ricorrente alla Hitchcock (suoni di Hubert Westkemper) e un’iride infinita, dalla techno (su cui i forsennati riti del corpo coreografati da Luna Cenere) a Bach, passando per valzer alla Sibelius, percussioni-mitragliatrici e, a cappella, uno spiritual tragicamente profetico, “Sometimes I feel like a motherless child”.
Scorticata d’urla e muta nel pianto, la Clitemnestra della Ragonese è pasionaria indomita e spezzata che coniuga il suo passato di giovinetta oltraggiata all’orrendo presente della figlia abusata. Di lei Arianna Becheroni offre un ritratto struggente in disperato contrasto con l’Agamennone tronfio, aitante e nascostamente lacerato di Ivan Alovisio. A loro modo inquieti e inquietanti, Denis Fasolo (Achille), Federico Lima Roque (Egisto), Cristina Parku (Cassandra), Anita Serafini (Elettra) e un Coro proteiforme e dolente (Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco).
Schermo bianco, alla fine. Ne copre pietosamente la vista e le colpe ma non abbastanza da non rivelarne le sagome (devoto e inconscio omaggio ai “Sei personaggi”?) come a dire che c’è ancora del marcio a Micene, metafora del mondo.