Il trasformista Arturo Brachetti arriva in Sicilia con il suo show dove tutto è possibile

Di Maria Schillirò / 03 Marzo 2022

Dopo quattro splendide stagioni in Europa, con oltre cinquecentomila spettatori in quattrocento repliche, innumerevoli sold-out e standing ovation, ritorna sui palcoscenici europei Arturo Brachetti nel suo coinvolgente one man show “Solo, the Legend of quick-change” che farà tappa in Sicilia il 19 aprile al Teatro Metropolitan di Catania e dal 21 al 24 aprile al Teatro Al Massimo di Palermo.

Uno spettacolo che, se è vero, come scriveva Goethe, che “non c’è via più sicura per evadere dal mondo che l’arte”, in questi tempi così spietati e difficili, offre, almeno per qualche ora, l’opportunità di lasciare a casa la razionalità e immergersi nella magia. Con una sorpresa ogni venti secondi, sessantacinque personaggi, da Elvis Presley a Pavarotti, da Frozen a Wonder Woman, il più grande e veloce trasformista al mondo mette in scena un varietà surrealista e funambolico dove tutto è possibile, novanta minuti di puro stupore tra continui cambi d’abito e altre affascinanti discipline, dalle ombre cinesi al mimo, dalla chapeaugraphie alla sand painting e il magnetico raggio laser.

L’illusionista torinese, anche regista e direttore artistico, in questo comico, onirico e travolgente show apre le porte della sua casa, una casa senza luogo e senza tempo, in cui il sopra diventa il sotto e le scale si scendono per salire: «Dentro ciascuno di noi esiste una casa come questa – spiega Brachetti – dove ognuna delle stanze racconta un aspetto diverso del nostro essere e gli oggetti della quotidianità prendono vita, conducendoci in mondi straordinari dove il solo limite è la fantasia. In scena schiudo la porta di ogni camera per scoprire la storia che ne è contenuta e farle quindi prendere vita sul palco». 

 

 

Tra continui travestimenti, colpi di scena e tecnologia c’è quindi anche una componente poetica.

«In questo ottovolante emotivo che è lo spettacolo, Arturo è un Peter Pan quindicenne imprigionato nel corpo di un sessantacinquenne che si scontra con la sua ombra, incarnata in scena dall’attore e ballerino Kevin Michael Moore. Mentre quest’ultima si ribella per ricordargli di mantenere i piedi ben saldi a terra, lui, al contrario, vorrebbe sempre volare. Questa metafora ci ricorda che dobbiamo accettare la realtà, quindi anche il trascorrere del tempo e i limiti che questo comporta, ma senza rinunciare ai nostri sogni. La soluzione è trovare un compromesso, io l’ho trovato nel mio lavoro».

Per molti l'arte del trasformismo è solo stupore e divertimento, lei come la definirebbe?

«La metamorfosi è un bisogno dell’uomo, a chiunque piacerebbe per un’ora o per un giorno trasformarsi in qualcun’altro. Vedere in scena qualcuno che riesce a farlo, anche se attraverso l’artifizio teatrale, è un’illusione che ci dà una piccola consolazione e quell'evasione e quella leggerezza di cui, soprattutto in questo periodo, abbiamo tanto bisogno». 

Indossare i panni degli altri l’ha aiutata a conoscersi meglio?

«Assolutamente. Nella mia pelle sto di gran lunga meglio oggi da sessantacinquenne rispetto a qualche anno fa. Mi sento più tranquillo, connesso e consapevole e il fatto di trasformarmi ogni sera in altri uomini, donne, bambini o addirittura cose, è un privilegio che non fa altro che arricchirmi. Ogni personaggio mi regala qualcosa e a volte ho quasi l’impressione di aver vissuto tante piccole vite».

La magia per lei è stata anche un riscatto. 

«Quando ero un ragazzino conobbi don Silvio Mantelli, un prete amante dell'illusionismo, e da lui assimilai i primi trucchi del mestiere. All’epoca i miei coetanei mi bullizzavano e si divertivano a infilarmi dentro i cassonetti dell’immondizia. Quando imparai i primi giochi di prestigio capì che anche io avevo un’arma, un asso nella manica con cui vincere la partita e così è stato. Negli anni, infatti, mi è capitato di rincontrarli e provare quasi un senso di tenerezza per alcuni di loro, costretti a fare lavori o a vivere vite che non li soddisfacevano».

A tredici anni i primi giochi di prestigio, a venti il debutto a Parigi e il resto è storia. Da oltre quarant’anni riesce a stupire, far riflettere e divertire la gente, forse una delle cose più difficili al mondo. Qual è il segreto per farlo sempre così bene?

«Il segreto è che non mi meraviglio più, perché ormai conosco tutti i segreti, tutto quello che avviene dietro le quinte. Mi nutro, però, della meraviglia degli altri e la faccio mia. Penso sia questo il senso del nostro lavoro, l'arte ha bisogno di interazioni umane. Il teatro è come l'amore, è bello solo se lo fai dal vivo. Negli ultimi due anni mi è molto mancato tutto questo e ora sono felice di poter tornare a condividere con il pubblico questa magia, di sicuro la più grande e la più bella». 

Pubblicato da:
Alfredo Zermo
Tag: arturo brachetti solo teatro trasformismo