Il grande baritono Leo Nucci torna a Catania al Teatro Massimo Bellini per la messa in scena di Rigoletto, ruolo a cui per quasi mezzo secolo ha legato il suo nome con oltre 560 recite ufficiali nei più grandi teatri del mondo, dal Met di New York alla Scala, dal Covent Garden di Londra alla Wiener Staatsoper di Vienna.
Non vestirà i panni del buffone deforme – dismessi con l’annuncio del ritiro dalle scene nel 2019 alla Scala – ma è alla regia del capolavoro verdiano, che debutta martedì alle ore 20.30 (penultimo appuntamento della stagione lirica 2023-2024) con il baritono georgiano George Gagnidze nel ruolo del titolo e sul podio la bacchetta dello spagnolo Jordi Bernàcer, l’Orchestra e il Coro del Teatro Massimo Bellini.
L’allestimento con le scene di Carlo Centolavigna è in buona parte una ripresa della sontuosa edizione vista al Teatro antico di Taormina nell’estate del 2021 – prodotta dall’ente lirico catanese – quando Nucci fu protagonista e regista per la serata evento in coppia con un’altra leggenda della lirica, il tenore Plácido Domingo, nell’occasione in buca a dirigere l’orchestra.
«È stata la mia unica ed ultima eccezione, fatta un po’ per celia, nella serata con Plácido. Siamo due vecchi matti!», dichiara divertito Nucci, 82 primavere e una forma smagliante, «Dopo non ho più indossato il costume del gobbo».
Perfezionista e cultore delle partiture, Nucci ha affrontato Rigoletto assecondando l’indicazione di Verdi della mise en scène.
«Non sono un regista e ho un grande rispetto della partitura e della tradizione. Ho la fortuna di possedere una bellissima copia del primo manoscritto dell’opera verdiana. Ancora prima di debuttare alla Fenice di Venezia nel 1851, Rigoletto fu investito dalla censura. All’epoca era disdicevole rappresentare un sovrano licenzioso e libertino. Verdi avrebbe voluto ricalcare lo spirito graffiante de Le Roi s’amuse di Victor Hugo da cui il librettista Francesco Maria Piave attinge, ma è costretto a cambiare nomi e ambientazione, dalla corte parigina del re Francesco I a quella del Duca di Mantova, da Triboletto a La maledizione a Rigoletto. Intanto, curiosamente, la sillabazione dei personaggi corrisponde all’originale di Hugo».
Quali idee sostengono la sua regia, Maestro?
«Mi è piaciuto spostare l’ambientazione alla corte francese di Francesco I che, ricordiamo, ospitò Leonardo da Vinci nel castello di Clos-Lucé sulla Loira dove avvenivano le feste per le quali al genio italiano si chiedeva di costruire fantasiosi marchingegni. Introduco in scena il personaggio della Duchessa evocato dal paggio nel secondo atto. Recupero la corretta dimensione del libertinaggio del Duca che nella scena della festa qualche regista si prende la libertà di trasformare in orgia, compiendo un clamoroso errore culturale. Per quanto io abbia avuto una lunga frequentazione con quest’opera, continuo a scavare nella sua complessità».
Cosa non le piace delle rivisitazioni attualizzanti?
«È un portato del teatro di regia che si è imposto nella prosa dai primi del Novecento. Preferisco mettere in scena la musica così come è stata concepita dal compositore. Nella partitura c’è tutto: drammaturgia e regia. Qualche giorno fa, in prova, ho fatto poggiare la scala sul muro ai rapitori di Gilda e il maestro mi ha detto: “Oh, finalmente mi hai chiarito perché c’è quel piccolo accordo di flauto e di fagotto”. Capisco, posso sembrare maniacale, ma mi metto al servizio della musica».
Chi è Rigoletto?
«Nella più potente drammaturgia che Verdi abbia mai scritto, Rigoletto è un personaggio triste, schiacciato dal suo ruolo al servizio del potere e beffato dai cortigiani. A lui, dice, non è dato piangere e lo fa solo quando viene ferito nel suo bene più prezioso, la figlia Gilda, da lui amata teneramente. Verdi cambia il finale di Hugo con una intuizione straordinaria: ricorre alla maledizione di Monterone per evitare che su Rigoletto possa ricadere la responsabilità della morte della figlia. Della celebre cabaletta “Sì vendetta, tremenda vendetta” il pubblico chiede sempre il bis. Sa perché? Perché vive una fortissima e umana immedesimazione. Riccardo Muti, con cui ho spesso lavorato, sostiene che la musica di Wagner ha caratteristiche tecniche superiori ma rimane una musica dell’Ottocento, quella di Verdi invece è senza tempo. Perché c’è dentro l’inesauribile mistero dell’uomo».
Ricorda il suo primo Rigoletto?
«E come potrei dimenticarlo! Era il 9 maggio del 1973 al Teatro Salieri di Legnago e mia moglie, Adriana Anelli, che fu la mia prima Gilda, era incinta di mia figlia».
Il suo rapporto con il “Bellini” è lungo e appassionato.
«A Catania ho fatto Rigoletto, Nabucco, Trovatore e anche concerti. Qui fui diretto, tra gli altri, dal grande Nello Santi, mentre ieri, parlando con gli artisti del Coro, mi sono commosso al ricordo del mio caro amico, il tenore Antonio Cucuccio. Ho ricevuto il Premio alla Carriera e custodisco con grande affetto anche la targa che mi hanno regalato i macchinisti del “Bellini”. Beniamino Gigli diceva che questo teatro ha la migliore acustica del mondo. Che sia vero o no, il “Bellini” vanta una storia gloriosa. Un nome per tutti, l’immensa Callas vi debuttò Norma nel ’50 e I puritani nel ’51».
Al centro della sua attività attuale c’è la formazione dei giovani.
«Faccio masterclass in tutto il mondo e ho la gioia di trasmettere le mie conoscenze. Ma, le dirò, anch’io continuo ad imparare moltissimo. L’età mi dà il beneficio della saggezza che mette insieme esperienza, conoscenza e curiosità».
Cosa direbbe a un giovane aspirante cantante?
«Se non ci fossero i coreani, i cinesi e i giapponesi, in Italia i conservatori nella sezione canto potrebbero chiudere. La carriera artistica è una strada di grande sacrificio. In Occidente siamo troppo abituati al posto fisso e alla cultura del tutto e subito. Peccato».