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E’ morto l’attore Gianni Cavina, attore cult del cinema di Avati

Nastro d'argento 1997, era stato il protagonista di tanti film con Avati tra cui "Dante"

Di Redazione |

Non c'è casualità nel fatto che sia stato Pupi Avati a divulgare la notizia della scomparsa di Gianni Cavina, stanotte a Bologna all’età di 81 anni: nell’immaginario del cinema italiano, senza Pupi Avati il volto e la bonomia di Cavina non esisterebbero. E in verità senza la complicità e l’amicizia con la famiglia Avati, Gianni sarebbe probabilmente rimasto solo un simpatico caratterista dialettale. Se però si va a cercare meglio nella sua biografia ci si ritrova davanti una personalità e una storia più complessa: nato a Bologna il 9 dicembre 1940, si forma alla scuola teatrale di Franco Parenti, ma poi partecipa alla tumultuosa e allegra vita artistica della città, dividendo perfino con Lucio Dalla il palcoscenico nel cabaret per debuttare al cinema grazie al giornalista-regista Raffaele Andreassi che nel 1968 lo chiama sul set di «Flashback» con cui partecipa al festival di Cannes e vince il Globo d’oro per la migliore opera prima. 

L’incontro con Pupi Avati, cui lo lega la passione per il jazz e quella per il cinema, avviene nello stesso anno con "Balsamus», storia ai confini del grottesco che passa però sotto silenzio come il successivo «Thomas e gli indemoniati». Ci vorrà la garanzia di un attore noto come Ugo Tognazzi e una fantasiosa sceneggiatura (a cui partecipa in prima persona) perché il nome di Gianni Cavina cominci a diventare familiare ad attori e produttori. Il film è «La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone» che impone anche il regista Avati nel 1975. Cinecittà adotta però l’attore nel filone della commedia scollacciata con il «Buttiglione» di Mino Guerrini o «San Pasquale Baylonne» di Luigi Filippo d’Amico (in coppia con Lando Buzzanca). Il sodalizio con Pupi Avati invece continua senza scosse e porta al successo di «La casa dalle finestre che ridono» (1976), «Tutti defunti…tranne i morti» (1977), «Le strelle nel fosso» che fanno del regista bolognese un giovane maestro tra horror e fantasy. Nel 1979 Cavina conquista il suo primo ruolo da protagonista nei panni di Padre Lino in «Adsalut Pader» diretto da Paolo Cavara e da lui sceneggiato insieme a Enzo Ungari. Seguiranno «L'ingorgo» di Luigi Comencini, «Il turno» di Tonino Cervi, «Per favore occupati di Amelia» di Flavio Mogherini. 

Nella vita di Cavina però Pupi Avati ritorna sempre più spesso da mentore e protagonista: alla fine lavoreranno insieme più di 20 volte, fino all’ancora inedito «Dante» in cui interpreta il notaio Pietro Giardino, nonostante la malattia già in stato avanzato. I primi veri successi comuni sono le due serie televisive «Jazz Band» e «Cinema!!!» alla fine degli anni '70 mentre resta indimenticabile il suo Ugo Bondi, incallito giocatore di poker in «Regalo di Natale» del 1986, presentato in concorso alla Mostra di Venezia. Cavina ci tornerà dieci anni dopo con «Festival» (sempre per la regia di Pupi) con cui conquisterà in Nastro d’Argento come miglior co-protagonista. Le interpretazioni senza il suo amico dietro la macchina da presa sono occasionali: «Non chiamarmi Omar» di Staino, «Sole negli occhi» di Andrea Porporati, «Il regista di matrimoni» di Marco Bellocchio, «Benvenuto presidente» di Riccardo Milani. Con un’eccezione che diede a Gianni Cavina una grande notorietà all’inizio degli anni '90: la serie tv «L'ispettore Sarti» di Giulio Questi, Maurizio Rotundi e Marco Serafini dall’indimenticabile personaggio creato dal giallista Loriano Machiavelli. Con la sua voce pastosa, il fisico robusto, le mani grandi come pale, il sorriso di volta in volta ammiccante e dolcissimo, Gianni Cavina conquistò la platea televisiva, apparve in produzioni internazionali, diventò perfino un volto della pubblicità. 

L’attore aveva mille sfumature da consumato caratterista, svariando dall’eccesso farsesco alla raffinatezza comica, dall’intensità tragica e dolente alla naturalezza realista dell’uomo qualunque. Ma era l’uomo a diventare indimenticabile anche dopo soltanto un incontro. Riservato fino all’eccesso, geloso dei suoi affetti familiari, accompagnato da una nota malinconica che celava dietro risate contagiose, Gianni sapeva farsi amare immediatamente, offrendo quella complicità spontanea che solo i veri emiliani sanno coltivare. Difficile ricordare una sua parola contro colleghi e amici, impossibile vederlo litigare veramente con Pupi e Antonio Avati. La loro storia è quella di un’amicizia generosa che non è mutata in 45 anni di vita artistica in comune: un matrimonio inossidabile.   COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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