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Claudio Gioè, dal kayak nel golfo di Mondello a Makari: «Con la cultura si può mangiare»

L'attore palermitano, interprete di tante pellicole di successo, ripercorre la sua passione per la recitazione, nata in Sicilia ma completata altrove

Vincenzo Santagati

03 Marzo 2024, 12:32

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Claudio Gioè, attore

Con il personaggio di Saverio Lamanna nella serie tv “Makari”, Claudio Gioè (49 anni compiuti da poco) si riconferma attore di notevole versatilità, nella cui persona, dentro e fuori dello schermo, convivono armonizzandosi tensioni differenti: un’innata sicilianità e una forza espressiva che si è nutrita della tradizione drammatica italiana.

La formazione di Gioè

Originario di Palermo, cresciuto in quei luoghi che ora con “Makari” sono davanti agli occhi di milioni di spettatori, Claudio Gioè ha una formazione drammatica di tutto rispetto costituita da una verve espressiva, che è di certo caratteristica dell’essere siciliani, del vivere in un’isola il cui folclore penetra fin nella pelle, e che in parte è frutto di un’acquisizione culturale maturata lavorando sodo nell’ambito della recitazione, a contatto anche con figure di spessore della tradizione drammatica. Dopo alcune esperienze giovanili, a diciotto anni l’attore lascia infatti la sua città natale per trasferirsi a Roma, studiando all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”.

Il kayak a Mondello

«Sono cresciuto facendo sport. Praticavo il kayak nel golfo di Mondello. Lo sport mi ha dato disciplina e rigore. Intorno ai 16 anni mi sono appassionato al cinema. Giocavamo a fare dei filmini con le videocamere e da lì ne è nata una passione. A scuola ho seguito un corso promosso dai licei di Palermo, che prevedeva laboratori che culminavano in spettacoli di recitazione, e lì ho capito che il rapporto con il pubblico mi intrigava parecchio. Ho fatto quindi il provino in Accademia, ed è andata bene. Per tre anni ho seguito un corso intensivo di otto ore al giorno. Facevamo teatro e guardavamo gli spettacoli. Negli anni Novanta passavano grandi spettacoli a Roma. Era uno stimolo continuo, un rapportarsi con grandi autori come Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Ho avuto anche l’occasione di vedere Gassman, Turi Ferro e Paolo Bonacelli, dai quali ho imparato molto».
In seguito Gioè mette su una propria compagnia teatrale, sperimentando sul campo i pregi ma anche le difficoltà della rappresentazione e dell’emergere in questo settore dell’arte, specie in Sicilia. Sono gli anni a cavallo tra Novanta e Duemila, anni del fermento, della prima tournée con l’Eliseo, che anticipano l’affermazione dell’attore in ambito cinematografico dopo l’incontro con il regista Luca Guadagnino e la partecipazione al lungometraggio “The Protagonist”.

Quand’è stato esattamente il momento in cui hai avvertito che la Sicilia era attraversata da una profonda contraddizione, quella inerente a un potenziale storico, geografico e culturale enorme ma sterilizzato da anni di cattiva gestione politica?
«Molto presto, a diciassette anni. Palermo sarebbe rimasta in seguito la mia base creativa, ma mi sono reso conto che in Sicilia la possibilità di una didattica della drammatizzazione non c’era. Ero costretto ad andare a Roma per seguire questa passione. Mi sono scontrato con le prime grandi difficoltà della nostra terra nell’istituire cose stanziali, trovare accesso a luoghi della cultura. In Sicilia impiegavo il doppio o il triplo dell’impegno che in altre città. In quegli anni si formò una generazione di drammaturghi e attori che riuscirono a fare spettacoli, ma fu merito più che altro della loro tenacia. Parlo di Emma Dante, Vincenzo Pirrotta, Ficarra e Picone».

Un film che dipinge in modi molto positivi la Sicilia e la sicilianità.
«“I cento passi”, perché racconta il lato bello dei giovani siciliani degli anni Settanta, giovani aperti alla cultura italiana ed europea, che percepivano la sofferenza di una cappa culturale e criminale che ha impedito il nostro sviluppo. E Peppino Impastato ne è diventato il simbolo: opposizione alla mafia con gli strumenti della cultura. “I cento passi” rappresentano il desiderio e l’ambizione di una generazione di togliersi di dosso questa cappa. Fabiola Banzi mi scelse per fare il provino a Cinisi».

In merito alla fiction “Il capo dei capi” è stato detto molte volte che la serie dipinge il personaggio di Riina come un eroe. Come hai lavorato per non far emergere queste possibili impressioni?
«Ho cercato di restituire una storia veritiera. Mi sono concentrato sui fatti storici, sull’aspetto psicopatologico e sul delirio di onnipotenza di personaggi che pensavano di durare per sempre. Il loro potere e la loro influenza andavano raccontati in tutta la ferocia per dare rilievo proprio a chi si oppose a quel livello di violenza. Per capire l’entità del coraggio occorreva mettere in scena la reale pericolosità di quei personaggi. Noi mettiamo uno specchio davanti agli spettatori, ma l’immagine che ognuno ne prende parla di sé stessi. La sceneggiatura del resto, basata sugli atti del processo, era di Claudio Fava, figlio di Pippo, e quindi ero molto confortato già in partenza. Sono grato anzi a quella fiction, perché ha messo al centro dell’attenzione le grandi collusioni tra la classe dirigente e la mafia. L’indignazione che venne fuori da parte di alcuni “personaggi” veniva proprio dal vedersi messi in scena accanto a figure storiche della mafia. L’ho affrontata poi un po’ anche come un dramma shakespeariano, che culmina con una grande caduta».

Adesso con “Makari” invece la Sicilia è veramente al centro dell’attenzione in tv, e il governo regionale ha contribuito alla produzione. Su cosa pensi però si debba veramente puntare per avviare un progresso serio nell’Isola?
«Mi fa piacere che “Makari” per la prima volta ha avuto accesso ai finanziamenti regionali, e che il governo regionale abbia riconosciuto il valore promozionale a una fiction del genere. Mi auguro che questa promozione continui, dopo tanti anni di occasioni mancate e finanziamenti perduti. Penso a quando a Termini Imerese si voleva costruire un polo produttivo del sud Italia, e invece furono buttati all’aria novantotto milioni di euro per le solite beghe politiche che ne impedirono la realizzazione. Spero invece che ci sia maggiore consapevolezza, e vedo che in effetti oggi c’è, per dare possibilità alle tante maestranze di lavorare con le produzioni che potremmo ospitare. Spero anche in un circuito teatrale, un sistema siciliano dei tanti teatri che oggi cercano di sopravvivere con piccoli finanziamenti ma che potrebbero essere inseriti in quadro organico più definito, che permetterebbe alla Sicilia di diventare una regione attrattiva. Vorrei insomma che con la cultura si mangiasse, come si dice, perché l’indotto che porta l’industria culturale è molto significativo».