Com’è cambiato il mondo della comicità in questi 25 anni?
«Senza dubbio il modo di presentarla. Oggi è tutto inscatolato e non si promuovono più cose che escano dai contesti normali. Se una volta c’erano realtà come il Circo di Paolo Rossi e Mai Dire Gol, adesso gli spazi per i cabarettisti sono molto esigui. Da parte delle emittenti non c’è più la voglia di rischiare e anche quando si fa una scommessa su qualcuno, spesso questo avviene in un momento in cui quell’artista è ancora immaturo e non è in grado di esprimersi appieno».
Il vostro è un trio interregionale. Quanto è stato determinante questa scelta per il successo?
«Probabilmente molto. La nostra formula è quella dei due milanesi contro il terrone, che poi è l’elemento che fa funzionare il tutto. Tra i tre il siciliano è quello vincente e questa cosa è vista con molta simpatia dal pubblico. Giovanni, poi, è riuscito anche a ingraziarsi i sardi».
Com’è stato lavorare con Tornatore in “Baaria”?
«Chiaramente in un contesto del genere non puoi che dire: “Maestro faccia di me quello che vuole, sperando di riuscire a farla sentire soddisfatto”. C’era un po’ di timore, ma ho cercato di dare il massimo, cosa che però faccio sempre nella mia professione, non solo quando lavoro con nomi così importanti».
Quando ha capito che la sua strada sarebbe stata quella del cabarettista e dell’attore?
«Prima di incontrare Giovanni non ci avevo mai pensato. Sapevo però quello che non volevo, così mi licenziai dalla Sip, per cui all’epoca lavoravo. Abbiamo fatto palestra negli anni ’80 a Milano. Prima di Zelig abbiamo lavorato molto in teatro mettendo su del repertorio che poi è confluito nelle gag del trio. Un esempio l’episodio della “Subaru baracca”, che poi si riferisce a una storia vera».
Qual è stato il momento della sua carriera in cui ha pensato: ce l’abbiamo fatta?
«Quando siamo stati a Mai Dire Gol. Nonostante avessimo sbagliato qualcuna delle prime puntate, nel momento in cui sono arrivati gli “Animali” la gente ci ha accolto con un grande abbraccio. Da quel momento ci siamo sentiti liberi di fare qualsiasi cosa e poter essere accettati. La consacrazione, poi, è arrivata con Tre uomini e una gamba. È stato un successo strepitoso e del tutto inaspettato. Eravamo partiti con quaranta copie in distribuzione e alla fine abbiamo salvato la stagione: gli esercenti ci ringraziavano perché i cinema erano sempre pieni».
Avete mai pensato ad allargare il vostro trio?
«Squadra che vince non si cambia. Naturalmente nei nostri lavori cerchiamo sempre di trovare strade diverse rispetto al tema dell’amicizia, che è preponderante nei nostri lavori. In questo senso le collaborazioni spesso aiutano. Chiaramente il nucleo centrale è il trio, ma io sono sempre aperto all’idea di allargare la famiglia».
Come si fa a coniugare la propria individualità d’artista lavorando contemporaneamente in un trio?
«A volte abbiamo sentito l’esigenza di esprimerci in spazi individuali, è naturale. I Beatles, dopo lo scioglimento, hanno continuato a esprimersi in musica separatamente, ciascuno con un’espressione diversa rispetta a quella del gruppo. Noi non ci siamo mai divisi, ma abbiamo fatto esperienze che ci hanno visti da soli o con altri artisti. Probabilmente anche il pubblico, a un certo punto, vuole questo».
Tra le sue attività c’è anche quella di artista visivo. Cosa significa la pittura per Aldo Baglio?
«Dipingere è per me un momento quasi meditativo. Mi chiudo in una stanza con i miei colori e mi estraneo dalle cose che ho attorno a me, potrei perfino dimenticarmi di mangiare. L’idea di esporre i miei lavori però è stata di mia moglie. Durante uno sgombero della cantina abbiamo deciso di mettere su una mostra a favore di una onlus che stava raccogliendo fondi per dei bambini indiani. Mi ha fatto molto piacere, ma si tratta di un’attività che faccio prima di tutto perché mi fa stare bene, non saprei valutare quanto siano validi i risultati».
Dopo 25 anni, l’attività del trio abbraccia ormai più generazioni.
«In un certo senso le nuove generazioni sono composte tutte da figli miei, nel senso che molti sono cresciuti con i nostri film e questo non può che renderci entusiasti. Chiaramente i nostri lavori non hanno mai affrontato temi impegnativi, ad esempio come ha fatto Pif che apprezzo tantissimo, ma siamo felici che abbiano significato molto per più di una generazione».
Le è mai capitato di litigare con i suoi colleghi?
«Conosco Giovanni da 45 anni e Giacomo, da 25. Naturalmente come tutti gli amici anche noi abbiamo avuto qualche litigio. A volte si esce sbattendo la porta, però poi si rientra chiedendo scusa per aver sbottato, e tutto torna come prima».