A Catania il debutto de “La Capinera” firmata Bella-Mogol

Di Redazione / 10 Dicembre 2018
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Catania – Ha debuttato ieri sera al Teatro Massimo Bellini di Catania “La Capinera”, melodramma moderno in due atti, tratto dal romanzo “Storia di una capinera” di Giovanni Verga con la musica di Gianni Bella, liriche di Mogol, il libretto di Giuseppe Fulcheri e l’ orchestrazione di Geoff Westley. Orchestra e coro del Teatro Massimo Bellini di Catania con la direzione di  Leonardo Catalanotto e la regia di Dante Ferretti (maestro del Coro:  Luigi Petrozziello). Repliche fino al 18 dicembre.

La scommessa di Bella-Mogol sulle ali della loro “Capinera”

Alla base c’è la “Storia di una capinera”, la quale – che si sappia – non era mai arrivata a diventare una partitura operistica, sebbene ne avesse tutti i numeri. Una mancanza, questa, che è stata ora superata, ma che ha pure riunito – dopo l’incombente Verga iniziale – più e diversi partecipanti nel ricavarne un melodramma, anzi un “melodramma moderno”, come lo si è voluto intenzionalmente definire. E “tout court” titolandolo “La capinera”, quasi in cerca di un “incipit” che vuole mirare solo all’essenziale. Ma poiché si capisce sùbito quanto sia stato stimolante – in fase creativa – l’interesse portato e dimostrato verso la gloriosissima melodrammaturgia italiana dell’Ottocento, ecco all’istante offrirsi il riscontro di un parallelo non peregrino né tirato per i capelli, bensì qui dichiarabile in nome di un paragone con quelle che sono le esperienze del passato. Tale è infatti il numero di quanti – per un verso o per l’altro – hanno dato il loro apporto all’oggettivarsi della “Capinera”, che è addirittura venuta in mente un’opera popolare come la pucciniana ”Manon Lescaut” (anch’essa tratta da un celebre romanzo, enucleato peraltro da un più ampio contesto letterario). Ché relativamente al cosiddetto libretto, vi hanno collaborato in cinque, tanto che si è sempre preferito lasciarlo senza alcuna firma, pur ben conoscendosene gli autori. Ed anche cinque sono al presente coloro che hanno messo mano nell’edificare “La capinera”, che adesso arriva al suo annunziato debutto, proprio in quella Catania che in gran parte è luogo dell’azione teatrale.

A parte dunque Giovanni Verga, se ne sono ritagliati i rispettivi compiti il noto cantautore Gianni Bella (cui si deve . in veste di compositore – l’iniziativa dell’opera), il sempre giustamente omaggiato Mogol – per le liriche -, nonché Giuseppe Fulcheri – per la stesura librettistica – e Geoff Westley per gli arrangiamenti, le orchestrazioni e le elaborazioni. Cosicché, a contare ovviamente Verga, si fa affidamento – cioè fra letteratura e musica – ad un edificio che passa attraverso dieci mani. Mentre, studiato attentamente il libretto – o meglio l’impostazione generale consegnata a questa “Capinera” -, sarebbe stato forse più calzante farne un musical, poco importandone la drammaticità del tutto (quindi al pari di quanto è avvenuto con il grande Leonard Bernstein, ossia con “West side story” – ed il bellissimo film derivatone -, lì partendosi dalla shakespeariana tragedia di “Romeo e Giulietta”, ormai in moderna salsa statunitense).


A questo punto, risalendo non a caso alla fonte primiera del romanzo, si noterà che una vicenda umbratile e già vagamente decadentistica e crepuscolare si era felicemente posizionata – nel 1871 – al centro fra un Verga parascapigliato e quello più tardo dei capolavori della sua stagione più matura. E se la cifra essenziale della “Storia di una capinera” (una cifra però non univoca) è un tendere alla tipicità del “larmoyant” – al tempo parecchio in voga -, non si vuole comunque dimenticare che a tale indirizzo letterario si iscrive inoltre ed almeno “In portineria”, riconducibile sempre al Verga e precisamente al suo teatro. E’ chiaro che il breve romanzo si avvale e si avvalora – lungo il suo tragitto – di una ricca dote di introspezione dei personaggi, quelli più caratterizzati – con la protagonista per prima – e quelli magari più scontati relativamente alla vicenda. E rimane pressoché prevedibile che si tratta di una vicenda da seguire con i fazzoletti in mano, per asciugare lacrime di compassione, qui suscitate dall’abilità di immedesimazione cui induce la prontezza comunicativa dello scrittore. Ed altresì apparirà naturale – un giorno ancora lontano – l’interessamento dimostrato in merito dalla cinematografia italiana, essendo due le produzioni in bianco e nero dal romanzo, oltre ad una terza più recente dovuta alla franca e fresca discorsività di Franco Zeffirelli.


Il libretto della “Capinera” – che ne ambienta la trama a Catania ed in una imprecisata zona pedemontana etnea durante un’epidemia di colera – procede con snellezza ed agilità, ma scostandosi dalle tante implicazioni che attorniano il nucleo narrativo principale. D’altra parte, se Fulcheri elimina quasi del tutto la punteggiatura o a tratti la riduce all’osso, va senz’altro posta in luce – appunto in questa “Capinera” con più paternità – l’evidente predisposizione verso una stesura che non rifiuta davvero certi aspetti con valore simbolico, né soprattutto rinunzia ad un guardare all’allegorico, ottimamente testimoniandosi – questo – dalla figurazione sfaccettata della Morte-Colera.


Superfluo dire che Gianni Bella – indipendentemente dal suo autorato da decenni alquanto battuto, e non poco incentivato dalle pertinenti soluzioni interpretative della sorella Marcella – fa non poco affidamento alla sua sicilianità, specialmente laddove – superandosi certi schemi stilistici di quella musica che alla svelta e sommariamente viene definita leggera – la vicenda ed i sentimenti espressi si incuneano in territori che dalla terra natia traggono una inalienabile e talora imponderabile ispirazione. Ed in tal senso si noti come si ricreano virtuosamente i suoni e le vociferazioni così familiari del mercato di Catania (la pesheria), in cui insinuanti timbri strumentali – l’oboe arabo e la chitarra, preziosamente vicini ed avvinti – ravvivano un quadro che accampa sorgive e vivaci colorazioni e vibrazioni. E poi un arrangiamento pop-siculo per l’aria tenorile – “Non ti sono rivale” -, mentre si accerta in più il gustoso metodizzare dell’ “Inno delle allodole”, quando la protagonista Maria si bea nella vista e nel cuore del paesaggio che le sta intorno e dei suoi campi rigogliosi (il ricordo di una Nedda – giù di lì operettistica con “Stridon lassù”, nel primo atto dei “Pagliacci” di Leoncavallo – induce a capire forse maggiormente l’amore che Gianni Bella sa affermare per il teatro lirico). Né il compositore sfugge al fascino che riesce a suscitare un’ouverture, e né manca di trovare le più azzeccate suddivisioni vocalistiche per i suoi personaggi. E quindi un soprano leggero ed un tenore per i due giovani, un basso-baritono per la Morte-Colera, un basso per il padre di Maria.
La perizia di Giuseppe Fulcheri – con i compiti sopra indicati – verte nel riproporsi ognora con centrata funzionalità rispetto alle diverse procedure cui è chiamato, dandosi anche a Mogol un ennesimo attestato di bravura nei suoi addentramenti versificati.

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