Da qualche anno a questa parte, sugli scaffali dei supermercati, sono sempre più numerosi i prodotti che utilizzano semi o farina di canapa: dalla pasta ai biscotti, dalle salse ai dessert.
A metà gennaio è stato pubblicato il decreto del ministero della Salute che fissa i limiti di tetraidrocannabinolo (Thc) negli alimenti ricavati da questa pianta. Secondo la norma, i semi di canapa e la farina, e gli integratori alimentari preparati con la canapa non possono contenere più di 2 milligrammi di Thc per chilo. Nell’olio il limite sale a 5 milligrammi per chilo.
Per capire lo scopo del decreto dobbiamo fare un passo indietro. La pianta cannabis sativa, utilizzata per gli alimenti, è la stessa che nel nostro Paese veniva coltivata per produrre fibre tessili fino agli anni ‘40 del secolo scorso. Poi la coltura è stata proibita per evitare la coltivazione delle varietà di canapa utilizzate come stupefacenti, dall’aspetto identico.
La differenza riguarda la quantità di principio attivo tetraidrocannabinolo (Thc), contenuto nelle infiorescenze.
La legge 242 del 2016 ha reintrodotto la possibilità di coltivare le varietà con un tenore di Thc inferiore allo 0,2%, (con una soglia di tollerabilità fino allo 0,6%). Dopo l’approvazione della norma l’estensione dei terreni dedicati alla coltivazione della canapa, dal 2013 al 2018, è passata da 40 a 4.000 ettari. La pianta, oltre che nei prodotti alimentari, è utilizzata nel settore tessile, cosmetico e nella bioedilizia. Negli alimenti possono essere utilizzati i semi o i derivati (come l’olio o la farina) perché non contengono Thc se non piccole quantità, dovute a contaminazione in seguito al contatto con le infiorescenze, durante la lavorazione. Per quanto riguarda gli aspetti nutrizionali, ricordiamo che i semi sono ricchi di acidi grassi polinsaturi essenziali, omega-6 e omega-3, e il loro rapporto, nell’olio, risulta ottimale per la nutrizione umana. È buono anche il contenuto di vitamine, come la E e quelle del gruppo B. L’olio ha un aroma che ricorda le nocciole.