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La morte di Enzo Biagi amato e odiato protagonista della storia

Dall’archivio. Novembre 2007, il ritratto del Cronista d’Italia “dipinto” da  Nino Milazzo

Di Nino Milazzo |

Del giornalismo e dei giornalisti aveva un'idea precisa. «Siamo null'altro che dei testimoni», diceva. Come per ricordare che il protagonismo non si addice a chi lavora per informare. E infatti Enzo Biagi amava definirsi un «semplice cronista». Aveva orrore della retorica. E dei pennacchi come degli orpelli. Lo dimostrava innanzi tutto con la sua prosa scarna, essenziale, che scansava ogni ridondanza. Eppure quella prosa aveva spesso il timbro, la potenza della poesia. E la poesia – questa la sua opinione – non ha bisogno di aggettivi. Come non ne ha bisogno la libertà, aggiungeva. E la libertà è stato il suo credo professionale.  Biagi era un uomo colmo di sentimenti. Era legatissimo alla famiglia. Si inteneriva per i deboli. Conosceva il senso profondo dell'amicizia. Ma sul lavoro era duro, era ruvido. E intransigente. Se aveva una convinzione, la manifestava senza interrogarsi sulle conseguenze della scelta. Ricordo gli scoppi di collera che lo coglievano quando qualche collaboratore dei suoi programmi televisivi lo sollecitava alla prudenza o – peggio – gli poneva il dilemma machiavellico del «cui prodest ?».  Rifuggiva sempre dalle logiche labirintiche della politica. E per questo ha pagato più volte lungo il suo cammino di giornalista che non temeva il potere. Il cosiddetto editto bulgaro, infatti, non è stato il solo inciampo. Prima di Berlusconi, Biagi aveva sfidato Craxi. E anche allora – erano gli Anni ottanta – questa sua posizione lo aveva esposto all'ostilità di non pochi settori dell'establishment. Persino all'interno del Corriere della Sera c'era chi non gli perdonava l'atteggiamento critico verso l'uomo forte che dominava la vita nazionale di quel tempo. L'avversione era tale che una volta io fui «processato» da una parte del sinedrio redazionale perché a qualcuno non piaceva che io passeggiassi conversando con lui nei corridoi di via Solferino. Per non dire che c'era chi si procurava le copie degli articoli di Biagi per leggerle in anteprima ai personaggi chiamati in causa nei suoi editoriali.  Nel destino di Biagi era scritto che, temendolo, i potenti lo odiassero quanto la gente lo amava. Come reagiva agli strali dei potenti e dei loro servitori? Io gli ero molto amico e fra noi non c'erano davvero segreti. E so, dunque, che egli soffriva quando l'arma della diffamazione veniva puntata contro di lui. Ma non per questo l'ho mai visto barcollare. Se polemica doveva essere, lui non si tirava indietro. Anzi le frecce della sua acuminata arguzia diventavano più affilate e pungenti. Solo, alla fine, quando lo hanno messo fuori della Rai m'è parso piegato dalla malinconia. Gli bruciava il modo in cui la vendetta politica si era compiuta: non una telefonata, non una lettera di spiegazioni, nulla: solo una raccomandata per fargli sapere che il rapporto era finito. Dopo quarant'anni di onorato servizio, Biagi fuori. Fu un colpo dal quale non si riprese veramente più: nemmeno quando nello scorso aprile lo richiamarono per una riedizione di RT, la stessa sigla di quattro decenni prima. Ormai era tardi. E la pugnalata della Rai lo aveva colto in un momento tristissimo della sua vita, quando, una dopo l'altra, aveva perduto la moglie Lucia e la figlia Anna.  Oggi, fra molti sepolcri imbiancati, tutti lo piangono. Ora che se n'è andato tutti scoprono la grandezza del Cronista che volendo raccontare la vita ha raccontato la storia. Biagi ci ha fatto conoscere da vicino i maggiori protagonisti del Novecento, del secolo breve e maledetto: «Sono un superstite dei diluvi che hanno segnato il destino di due generazioni: fascismo, nazismo, comunismo.  Milioni di vittime. Non è vero, dunque, che le idee sono sempre innocenti».  Un giorno mi disse: «Il momento in cui smetterò di fare questo mestiere sarà la fine». Aveva una capacità di lavoro straordinaria. Ogni giorno, di buon mattino, se non aveva impegni alla Rai di Milano, era nel suo ufficio presso la Rizzoli in Galleria a scrivere (rigorosamente a mano) i suoi articoli e i suoi libri, con la sua grafia rapida e rotonda ma indecifrabile, che solo la Pierangela, segretaria fedele e intelligente, riusciva a tradurre. Nonostante i suoi sei bypass sapeva sopportare la fatica con grande forza. Ricordo ancora quella volta in cui, dopo aver tenuto la riunione con il gruppo redazionale Rai, ci comunicò che di lì a poco sarebbe partito per Parigi, dove avrebbe intervistato il presidente Mitterrand, per poi proseguire alla volta di Mosca e proseguire per le Filippine dopo una sosta di due ore all'aeroporto della capitale sovietica (ancora sovietica). Viaggiava con un medico al seguito, ma ho sempre pensato che a me non sarebbe bastato. Biagi incontrava i Grandi del mondo. Ma non disdegnava di stare insieme agli umili. Io lo accompagnai a casa del piccolo Querulo, il bambino di Catania che perse la vista a causa di una sparatoria fra mafiosi. E lo rivedo ancora oggi, affettuoso, accostarsi al dolore di quella famiglia. Ne ricavò un commovente «servizio» per uno dei suoi programmi tv. Amava la Sicilia. Ed era un amore vero, sincero. Diceva: «Qui mi sento come a casa mia». Ci fu un tempo in cui mi chiedeva frequentemente notizie degli amici comuni. Aveva molta simpatia per Raffaello Gattuso, l'indimenticabile Boz de «La Sicilia». E apprezzava molto Renzo Di Stefano, caporedattore «storico» dello stesso giornale. Lo conquistò la personalità di Pippo Fava quando lo invitò a parlare di mafia in un programma che andavamo a registrare negli studi della televisione svizzera a Lugano. Conobbe anche Rino Nicolosi. E rimase molto colpito dalla drammaticità di una rivelazione che l'ex presidente della Regione gli fece un giorno a pranzo. Eravamo ospiti a casa Biagi e Nicolosi a un certo punto tirò fuori da una borsa una foto segnaletica ricevuta dai carabinieri. Era quella del killer che era stato incaricato di ucciderlo. Nella conversazione irrompeva l'immagine della Sicilia «nera». Ma Biagi si adoperò per allontanarla. «Via, voi siciliani siete italiani esagerati», commentò con amabile ironia. Un'ironia che lo assisteva in ogni momento della sua giornata. Mi rimane impressa la battuta con la quale fulminò l'iniziativa di un grande inviato che aveva scritto un libro sulla Cina dopo un breve soggiorno a Pechino. Il libro si intitolava appunto «Lettera da Pechino». Biagi me lo mostrò e, lapidario, mormorò: «Perché una lettera? Bastava una cartolina». Ora mi mancherà. Dopo i molti anni di sodalizio milanese, ci parlavamo spesso per telefono. E ogni volta mi salutava allo stesso modo: «Sei un amico della vita». All'ultimo appuntamento non ha potuto rispondere: non stava bene. Era il 9 agosto scorso, giorno del suo compleanno.  «Qualcuno ha detto che ognuno di noi si porta dietro il passato, ma vivere è anche conservare i propri ricordi». Sono parole sue. Io vivrò, finché vivrò, conservando il suo ricordo. E lo custodirò come un bene prezioso perché prezioso è stato l'esempio del Cronista d'Italia.  

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