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Corleone, ovvero “Tombstone”

2 giugno 1978, il viaggio di Pippo Fava nel paese devastato da morti violente quasi sempre a tradimento

Di Redazione |

La penultima volta che eravamo passati da Corleone, lungo la nazionale, a duecento metri dalla periferia del paese, c’era il cadavere di un giovane col petto sfondato dalla lupara. La violenza del piombo gli aveva fatto fare un balzo di almeno tre metri a pancia all’aria, e lo aveva scaraventato ai margini dell’asfalto con le braccia e le gambe spalancate. Sembrava fosse stato investito da un treno a cento all’ora. L’ultima volta che passammo, invece, era ancora notte ed, al centro del paese, c’era un anziano signore calvo, molto distinto, riverso dinnanzi alla porta del suo studio di avvocato. Nove revolverate lo avevano colpito al petto ed alla testa mentre stava infilando la chiave nella toppa. Il morto si chiamava Ugo Triolo, aveva 58 anni, era procuratore legale di buona stima nel territorio, aveva le carica di vicepretore a Prizzi, la sua era onorata famiglia di avvocati e magistrati, non aveva mai avuto a che fare con interessi criminali, se non per doveri del suo ufficio.

Pippo Fava

Ora stava però in mezzo alla strada, a un metro dalla porta di casa, i fari di due auto puntati addosso e, dal buio, centinaia dì occhi immobili che lo fissavano. Forse nessuno di loro sapeva perché Ugo Triolo era stato ucciso. Forse invece molti lo sapevano, ma non lo avrebbero detto mai. Era il decimo assassinio dell’anno.

Siamo a Corleone per capire. Chi, meglio di coloro che nascono, vivono e muoiono qui, può sapere il perché di dieci assassini in un anno, di cento assassini, di questa ininterrotta tragedia che, pur nell’assurdo della vita del sud e nella fatalità della violenza, appare senza eguali? Cominciando a camminare per la strada centrale del paese pensammo alla bellezza di questo nome. Corleone, che è spavaldo e romantico, evoca sole, polvere, combattimenti all’arma bianca, e come invece in nessun’altra parte la morte violenta sia cosi oscura e triste. Quasi sempre a tradimento.

I vecchi «boss» italoamericani che tornavano in Sicilia per una vacanza ed una visita agli oramai dimenticati parenti, oppure oramai devastati dagli anni, tornavano per comperarsi un bel sepolcro di marmo, chiamavano Corleone con una espressione, tipica di chi ha smarrito l’uso del vecchio linguaggio e di quello straniero ha appreso il gergo essenziale. Con una parola si può esprimere tutto. Perciò chiamavano II vecchio paese «Tombstone», cioè, Pietra tombale.

Cominciamo a camminare per le vie di Corleone… Come si fa a capire perché in questo paese ci si uccide più che in qualsiasi altro? Non c’è dubbio che meglio di tutti dovranno pur saperlo coloro che ci abitano… Risalimmo lentamente la strada centrale, scrutammo qua e là nel vicoli e nelle straduzze che si aprivano improvvise e subito s’inerpicavano a monte, si perdevano. Sui marciapiedi della piazza centrale c’erano gruppi di uomini Immobili… Via via che salivamo la strada diventava sempre più deserta e cosi arrivammo al commissariato di Polizia, un grande portone ferreo in un vicolo. Bussammo. Silenzio. Di là dal portone si indovinava un grande cortile ma sembrava deserto. Poi il portone si aprì cigolando e si affacciò un appuntato tristissimo, con i piccoli baffi grigi, due occhi stanchi e sospettosi: «Nossignore, non c’è nessuno. Il commissario non so quando viene, non so nemmeno se viene. Forse è andato a Palermo!».

Facemmo un piccolo inchino di saluto, «Buonasera» e per poco non demmo una mazzata con la testa contro il portone che l’appuntato aveva già chiuso. Tornai in quella magnifica piazza deserta dov’era il municipio. Chiuso. La grande facciata settecentesca aveva tre balconi sprangati, due lapidi e tre portoni al pianterreno. Quello centrale aveva una vetrata con una fioca luce all’interno ed un’insegna di legno in cima «Circolo dei buoni amici».

Entrammo cautamente. Per abitudine, diciamo per istinto professionale, oramai si riesce in pochi secondi a definire una situazione in tutti i particolari, come una fotografia: dapprima c’era un grande salone con quattro giganteschi divani di pelle verde, due specchi, alcuni manifesti, una fila di sedie, ed una ventina di persone sedute qua e là; poi un altro saloncino buio nel quale s’intravedeva la sagoma di un pianoforte e l’ombra di un uomo che suonava adagio adagio una vecchia canzone d’amore, e Infine la luce di un altro salone con la macchia verde di un bigliardo e un rumore di biglie che rimbalzavano…

Tutte quelle venti persone stavano immobili a guardarsi ed io dissi: «Buongiorno, sono un giornalista e vorrei parlare un po’ con voi! ». Si fece un silenzio di tomba, la musica del pianoforte cessò di colpo, la luce verde del bigliardo si spense. Cercai di fare il sorriso più indifeso: «Vorrei sapere quanti sono gli abitanti di Corleone, gli emigranti, quante scuole, cinema, cosa produce la campagna…!».

Di colpo tutti quel venti uomini immobili parvero animarsi miracolosamente di improvviso interesse ed entusiasmo, una specie di calda amicizia per l’ospite, proprio un trasporto che li induceva a parlare tutti insieme, a correggersi, smentirsi, ridere, gesticolare. Mi fecero sedere, mi chiesero se volessi un caffè, come mi chiamavo, chi ero, da dove venivo. In meno di un quarto d’ora appresi tutto di Corleone, dodicimila abitanti più settemila emigrati, il sindaco si chiamava Mariano Maniscalco ed era coltivatore diretto, l’amministrazione era fatta da democristiani e socialisti, le scuole c’erano tutte dal liceo classico e scientifico all’istituto professionale agricolo all’istituto tecnico per geometri, al magistrale femminile. Un signore aggiunse piamente: «Gestito dalle suore del Sacro Cuore!».

Appresi anche che c’era un’industria di laterizi, due pastifici, una radio locale apolitica, due ristoranti, una discoteca, due sale di bigliardo, un artigianato ancora valido di falegnami, fabbri, calzolai, sarti ed infine che iI terremoto del Belice aveva bloccato l’attività edilizia. Esitando chiesi se ci fossero piccoli reati, intendevo scorrerie di scippatori, rapine, furti, borseggi e fu un coro di proteste ridenti. Nessun furto! … e io alzando la mano chiesi: « In un anno quanti omicidi ci sono stati a Corleone?».

Si fece di colpo un silenzio impressionante. Rimasero proprio tutti muti e immobili…

— Scusate… io non voglio sapere i nomi degli assassini, ma solo quanti omicidi sono stati commessi! Un problema sociale… Lei ad esempio che sapeva tutto sulla scuola…?

«Non so, non m’Intendo! ».

— E lei che mi ha spiegato tutto sugli emigrati…?

«Non ero lo!».

Passa il morto. Tornammo al commissariato. Nel vicolo iI vento si era fatto gelido, iI portone si apri cigolando e attraverso la fessura riapparve iI volto dell’appuntato, sembrava ancora più triste, iI vento gli rovesciava curiosamente i capelli a frangetta…

«Nossignore, il commissario non è ancora venuto! No, non conosco il telefono di casa. No, non so nemmeno dove abita! Forse viene più tardi, chi lo sa…?»

A mano a mano che parlava cominciava a rinchiudere iI portone finché rimase una piccola fessura dalla quale si vedeva solo un occhio e il naso. Ridiscendemmo II corso, entrammo In un bar a prendere un caffè e domandai:

— Scusi, quanti omicidi ci sono stati in un anno a Corleone?

«E perché lo chiede a me?»

— Perché lei abita a Corleone! Dovrebbe saperlo!

«Perché?».

— Per capire come vanno le cose ed evitare che domani possa accadere anche a lei!

«A me non capita!».

— Allora quando ammazzano un uomo lei che fa? . •

«Dico: beh!».

— E che fa?

«Quando passa il morto abbasso la saracinesca, e appena è passato la rialzo!»

Tornai per la terza volta al commissariato; tutto II vento del paese pareva radunarsi nella grande piazza settecentesca deserta, e poi infilarsi in quel vicolo raggelandosi. Stavolta l’appuntato non mi salutò nemmeno, mi fece solo un cenno malinconico di diniego, con due occhi che dicevano perfettamente: ma perché mi vieni a rompere le scatole, lo vedi che non puoi entrare, lo senti che freddo maledetto, non lo capisci che sono stanco, forse ho la febbre e non me ne fotte niente di quello che vuoi?».

— Appuntato per cortesia allora mi dia solo un’informazione: quanti omicidi sono stati commessi in questo paese nell’ultimo anno?

«Non so! lo sono qui solo da poco tempo!».

— E non si è informato?

«Perché dovevo informarmi?»

— E le piace Corleone?

«Uno va dove viene comandato di andare!».

Riaprimmo la grande porta a vetri del «Circolo del buoni amici». Erano ancora tutti là, feci un sorriso ignobile e qualche piccolo gesto che voleva essere buffo: «Che vento…! Ma a Corleone fa sempre questo freddo? ». Rimasi così al centro del salone per qualche istante:

— Forse c’è stato un equivoco io non sto conducendo alcuna indagine sugli omicidi commessi a Corleone. Ho bisogno solo di sapere quanti! Se possibile chi è stato ucciso, e se qualcuno ha un’idea del perché. Voglio dire perché tanti delitti!

Non rispose nessuno e cercai di apparire ancora più soave nella voce ed amichevole nel volto. Né la mia voce, né la mia faccia sono molto adatti e tuttavia feci del mio meglio, con un gesto quasi musicale:

— Vedete, al mio paese, in trent’anni c’è stato solo un omicidio. Sarà che al mio paese sono un po’ minchioni, fate voi, ma non ammazzano né per corna, né per interesse e nemmeno per politica. Qui invece nello stesso tempo ci sono stati più di cento omicidi. Ora, una ragione ci deve pur essere se in un paese ci sono stati cento omicidi. Non mi dite di no!

Nessuno infatti disse di no. Nessuno disse niente. E io sempre soavemente:

— Allora voi che abitate in questo paese, ci vivete da sempre, ci siete nati, siete artigiani, commercianti, professori, studenti, pensionati, professionisti, coltivatori, qui vi siete sposati, avete figli, la casa, iI lavoro, gli amici, voi che giorno e notte dovete pur stare qui, dormire, camminare per strada, parlare fra di voi, vendere la merce, trattare, salutarvi, insomma dovete maledettamente stare qui, vi sarete almeno chiesti perché qui a Corleone accade che tanti uomini possano essere uccisi. Porco diavolo ve lo sarete chiesto! lo al posto vostro me lo sarei chiesto mille volte ogni giorno per evitare una qualunque di quelle cose per le quali qui si può essere uccisi!».

Mi accorsi che stavo Incredibilmente gridando, iI fotografo Torrìsi mi guardava con

uno sguardo di odio implorante e tuttavia tentati di concludere:

— Per piacere, ditemi allora almeno perché qui si ammazzano!

Nel silenzio mi resi conto che stavano tutti nutrendo nei miei confronti un disprezzo totale perché stavo cercando di fare una cosa, cioè una sopraffazione che in realtà non avevo iI diritto di compiere. In quel momento si aprì l’uscio ed entrò un vegliardo, proprio un uomo vecchissimo, piccolo, gracile e secco, con una coppola sul volto affilato, il quale fece un cenno impercettibile di saluto ed a passi piccoli piccoli andò a sedersi in un angolo. Uno disse:

«Ecco, un zu Mannino glielo può dire. Lui ha novantacinque anni!

La frase era di una ironia glaciale. E io infatti chiesi:

— Zu Mannino, perché ci sono tanti omicidi?

Tomba! Un giovane garbatamente sussurrò: E’ sordo!

Ripetei la domanda a voce ancora più alta. Il vecchio mi fissava con sorriso di pietra, e allora sottovoce chiesi al giovane:

— Cos’è, un contadino?

«No, ex guardia di pubblica sicurezza!»

Fece proprio un pispiglio, ma dall’angolo lontano il vegliardo disse:

«Brigadiere! Ero brigadiere!»

Feci un inchino, avevo perduto.

— Scusate! Mi permettete almeno di fare qualche fotografia qui… non so a quel signore che suonava II pianoforte!

Era un signore, grasso, malinconico, non aveva detto una parola. Mentre ic facevo la domanda, aprì silenziosamente la porta del circolo e se ne andò.

— Quei signori che giocavano a bigliardo…

« Se ne sono andati!».

— Allora una foto qui, voi tutti riuniti in questo bel salone, il circolo dei buoni amici!

«No! »

«Qualcuno vuoi fare una partita a bigliardo con me? Silenzio.

— Scommettiamo 1 caffè per tutti!

E non seppi mai! Li guardai uno a uno, ed ognuno fece un minuscolo cenno di diniego, o semplicemente mi guardò immobile, e allora io andai nella sala del bigliardo, presi la stecca, la ingessai a lungo, disposi I birilli, allineai le biglie:

— Una partitina da solo, pochi minuti… Grazie! Tanto per ricordo!

lo ero bravissimo al bigliardo, da ragazzo addirittura ci campavo, nel senso che, quando giocavo io, dalle sette alle dieci di sera al mio paese, molte persone s’adunavano nella sala e cominciava il gioco delle scommesse. Ero dato cinque ad uno contro qualsiasi avversario, concedevo handicap a chiunque. Sulle vincite percepivo iI cinque per cento e così ogni sera guadagnavo i soldi per le sigarette, il cinema, e una donna una volta la settimana. Bene, al bigliardo di Corleone tirai dieci colpi di stecca ignobili: all’ultimo feci addirittura schizzare una biglia sul pavimento, rotolò adagio lungo quella fila di persone che osservavano, io la seguii piano piano guardando quella fila di scarpe immobili, raccolsi la biglia e, con il gesto più leggero possibile, come fosse di cristallo prezioso, la depositai sul panno verde, con un sussurro:

— Grazie, tolgo iI disturbo!

Sulla porta c’era l’Inserviente del circolo, un omino un po’ sghembo che si protendeva sorridente verso di me, cori un vassoio e una tazzina di caffè:

— Omaggio del circolo del buoni amici!

Ed a Corleone, dalla gente di Corleone, non seppi mai perché a Corleone la gente si uccide!COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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