Quando il “Paradiso” vinse l’Oscar

Di Redazione / 14 Marzo 2023

Abbiamo vinto: Tornatore, la sua Sicilia trasognata e febbrile, il cinema solido e genuino, e infine, lasciate che lo dica… io e questo giornale.

«Il cinema italiano ha un futuro, che si chiama Giuseppe Tornatore»: così iniziava, infatti, la mia entusiastica recensione di “Nuovo cinema Paradiso” su «La Sicilia» del 26 novembre 1988. Ma fummo solo in tre o quattro, e furono due o tre quotidiani, a esaltare quel film. Per il resto, da parte della corporazione dei critici, fu un coro di arcigne riserve e di arroganti alzate di spalle. Perché?

Per un motivo contingente e per uno di fondo. Il motivo contingente si chiamava Ettore Scola. Usciva, pressappoco negli stessi giorni, un suo film (decisamente bruttino) sullo stesso argomento:

la storia del cinema attraverso la storia d’un cinema, “Splendor”. La corporazione scelse di tutelare il più forte.

Ma il motivo determinante è ideologico e di gusto, e potrebbe prender nome da Nanni Moretti, il Khomeini di Trastevere che «gira» volantini con la macchina da presa imbambolata e trasuda uno scontatissimo «vissuto» dai suoi eskimo stinti. Il «morettismo», malattia senile del cinema italiano, assembla e miscela acne giovanile e ulcere da «reduce», ideologie paleolitiche e (il punto è questo) tecniche cinematografiche snobisticamente primitive.

E invece Tornatore si installa con sicurezza e passione nella migliore tradizione, immediatamente comunicativa e accortamente coinvolgente, del bel cinema d’un tempo: il cinema-cinema, fucina d’immagini inedite e sgargianti. Quello, insomma, dei film che scorrono sullo schermo del “Cinema Paradiso”: da “Ombre rosse” a “Verso la vita” al grande e obliato Germi, vittima degli stessi pregiudizi intellettualistici, e perché no anche al cinema popolare, «di serie B», incondizionatamente amato da chi il cinema ami «in sé e per sé», e cioè come lessico e sintassi, come catalogo d’archetipi e costellazione d’immagini, e non come ingorgato recipiente di nevrosi «d’autore».

E allora, in principio è il cinemino parrocchiale (ricordate quei «baci rubati», che magicamente ritornano alla fine?); e in principio è il mitico antro abitato dal proiezionista, lo stregonesco artefice della «grande illusione». Da quel luogo sacro e inaccessibile le immagini debordano, in una sequenza di struggente bellezza e di miracolosa tecnica, fuori: nella piazza, nell’isola insonne e lunare, nel mondo.

Ricordate? La magia prende respiro e ritmo dalle gags del grande Totò (un altro «incompreso», vittima a sua volta dell’intellettualismo impegnato o introspettivo dell’altroieri!), dalle sue piroette sullo schermo precario e appannato. E successivamente insegue, sulla scia d’una macchina da presa mobilissima, le reazioni d’un pubblico entusiasta ed esilarato. Ma infine (ed ecco il miracolo!) esplode nella stupenda invenzione, da antologia della storia del cinema, propiziata dal buon mago Noiret: e cioè in quelle immagini proiettate che come larve scivolano sulle pareti della cabina, traboccano dalla finestra, si stemperano nel vuoto notturno della piazza, si fissano finalmente e rivivono sul muro calcinato d’un palazzo.

E quell’arena estiva che s’apre sul mare pullulante di barche? Degna del miglior Fellini, quello della apparizione del «Rex»: del resto, proprio “Amarcòrd” fu l’ultimo Oscar tutto italiano. E c’è una linea tutta siciliana, nella storia del cinema, che salda il successo di Giuseppe Tornatore, che da Bagheria (l’accesa Bagheria di Guttuso e di Buttitta) guarda all’America e ai suoi inossidabili modelli, e proprio in America infine trionfa con l’Oscar, con la magnifica avventura d’un altro siciliano, un povero emigrato di Bisacquino che in America realizzò «quel» cinema, e addirittura inventò il mito stesso dell’America. E dico del grande Frank Capra.

Leonardo Sciascia amava Capra, amava John Ford, amava il cinema e la tradizione. Gli parlai del film di Tornatore, glielo raccontai. E lo vide: fu l’ultimo film della sua appassionata e intelligente carriera di spettatore. E ne scrisse, in un commosso e commovente saggio titolato “C’era una volta il cinema”. Dove, fra l’altro, lodava Tornatore con la stessa acutezza con cui biasimava un certo cinema odierno che è altro dal cinema, perché, «è diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia».

E se Tornatore gli dedicasse il suo Oscar?

Condividi
Pubblicato da:
Fabio Russello
Tag: lasicilia78