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L’armistizio che cambiò il corso della Seconda Guerra Mondiale

A Cassibile, nei pressi di Siracusa, sotto una tenda da campo il generale Giuseppe Castellano aveva posto la sua firma alla presenza di Dwight D. Eisenhower

Di Ezio Costanzo |

Alle 19,42 dell’8 settembre di 1943 il generale Pietro Badoglio, capo del governo, annuncia dai microfoni dell’EIAR, la radio nazionale, la resa incondizionata dell’Italia alle forze anglo-americane. Qualche giorno prima, il 3 settembre, a Cassibile, nei pressi di Siracusa, sotto una tenda da campo adibita a mensa, il generale Giuseppe Castellano aveva posto la sua firma sotto i dodici punti dell’armistizio “corto”, in presenza di Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze Alleate nel teatro del Mediterraneo.

È uno dei momenti più drammatrici della storia italiana, che sancisce la fine dell’alleanza italo-tedesca e apre la strada a tragiche conseguenze militari (esercito italiano allo sbando, invasione delle truppe tedesche dell’Italia del Nord) e sociali (la lunga scia delle stragi tedesche della popolazione civile).

La strada intrapresa dagli italiani per raggiungere una pace separata con gli anglo-americani era stata quella della trattativa segreta. Che aveva avuto inizio molto tempo prima della caduta del fascismo (25 aprile 1943) e accelerata dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943). Ma la situazione era paradossale: da un lato vi era l’alleato tedesco, che già cominciava a fare arrivare nella penisola le sue divisioni per contrastare l’avanzata anglo-americana; dall’altro lato vi erano gli anglo-americani che, nello stesso tempo, si trovavano di fronte un’Italia ambigua, i cui vertici istituzionali, Badoglio e il re, pensavano soltanto a non fare trapelare le loro intenzioni di arrendersi impauriti dalla probabile risposta tedesca.

Questo portò gli i capi romani a mantenere segrete le prospettive di resa anche ai comandanti militari italiani che si trovavano nelle zone di combattimento, sia in Italia che fuori di essa. Così, mentre da un lato i vertici istituzionali trattavano per arrivare ad un armistizio, dall’altro lato i generali davano disposizioni all’esercito per fronteggiare, accanto ai tedeschi, l’eventuale sbarco sul continente.

Soltanto dopo il 3 settembre giunsero alle truppe italiane le prime vaghe indicazioni di comportamento da tenere nei confronti dei tedeschi, che erano quelle di reagire soltanto nel caso di eventuali atti di forza da parte germanica. Il silenzio romano e le interminabili ore di tentennamento dei capi militari, con in testa il re, come ben sappiamo costeranno la vita a tanti soldati italiani.

All’indomani dell’annuncio dell’armistizio il re con l’intera famiglia, il maresciallo Badoglio, le alte cariche dello Stato e alcuni funzionari, abbandonarono precipitosamente le loro residenze romane fuggendo verso Pescara. Da qui, si imbarcarono sulla corvetta Baionetta per raggiungere Brindisi. Tutti dimenticarono di dare ordini alle forze armate su come affrontare quei drammatici momenti. E non solo ai soldati che si trovavano in Italia, ma anche ai 35 mila uomini che in quel momento stavano ancora combattendo nei Balcani e nell’Egeo, presi di sorpresa dall’annuncio della resa.

La reazione tedesca fu dura. Molti italiani vennero uccisi, tanti altri furono deportati nei campi di concentramento in Germania. Roma fu occupata dai tedeschi e restò in loro mano fino al 4 giugno del 1944.

Della resa dell’Italia e del suo significato storico, ma anche politico e militare, ne abbiamo parlato con il prof. Holger Afflerbach, docente di Storia dell’Europa Moderna all’Università inglese di Leeds, di recente ospite a Catania al convegno sull’80° anniversario dello Sbarco in Sicilia organizzato dalla Fondazione Oelle Mediterraneo Antico. Afflerbach è autore, tra gli altri, del libro “L’arte della resa. Storia della capitolazione” (Il Mulino).

Prof. Afflerbach, la resa dell’Italia è stato un tradimento nei confronti dell’alleato tedesco?

«Nell’estate del 1943 l’Italia si trovava in una situazione particolare. Non poteva continuare a combattere ma il governo fascista era legato alla guerra ed era ovvio che i tedeschi non avrebbero di certo permesso all’Italia di ritirarsi dalla guerra. Si stavano già preparando a occupare il Paese, se fosse stato necessario. La situazione era estremamente difficile. Badoglio e il Re riuscirono a deporre Mussolini, ma alla fine prepararono molto male l’armistizio. A causa della stretta segretezza degli accordi italiani con gli Alleati le truppe Italiane non sapevano come reagire. Non erano stati dati ordini adeguati per evitare che i tedeschi potessero semplicemente prendere il controllo dell’Italia e disarmare le truppe Italiane. I soldati italiani non sapevano più chi fosse il nemico: i tedeschi o gli alleati? Il governo Badoglio mentì ai tedeschi fino alla fine e fece un doppio gioco che insospettì anche gli Alleati. Badoglio fu profondamente disonesto e in un certo senso infido nei confronti dei tedeschi; ma si potrebbe dire con molta più fondatezza che il Re e Badoglio tradirono, si tradirono, il proprio Paese».

Cosa avrebbero potuto fare di diverso, il re e Badoglio?

«Le critiche, a distanza di ottant’anni, sono poco efficaci. Ma una misura di come le cose avrebbero potuto essere fatte diversamente sarebbe quella di confrontare le azioni italiane nel 1943 con quelle di altri alleati tedeschi che cambiarono schieramento o uscirono dalla guerra nel 1944, come l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria o la Finlandia. Di questi, Romania e Finlandia riuscirono a uscire dalla guerra senza essere occupati dai tedeschi. La Bulgaria riuscì a fare qualcosa di simile. L’Ungheria, invece, condivise la sorte dell’Italia, anche se attraverso le più brutali misure tedesche (come il rapimento del figlio di Horty); un governo fantoccio tedesco (i Nazisti ungheresi, l’equivalente ungherese del governo di Salò) continuò a combattere a fianco della Germania. Il giudizio su Badoglio e Vittorio Emanuele III è molto severo. Loro non riuscirono a condurre l’Italia fuori dalla guerra perduta, a salvare il Paese, a porre fine alla guerra e, allo stesso tempo, ad essere all’altezza delle tradizioni di onestà. Specialmente il paragone con la Romania dimostra che si poteva fare questo passo con molta più efficacia. Il punto è l’efficienza, l’energia e il coraggio personale; qualcosa che mancava al re e a Badoglio».

Una resa disonorevole, dunque…

«La resa fu un atto di auto-conservazione per l’Italia, quindi non serve parlare di onore. Semplicemente non era più possibile continuare a combattere. Quando la Germania si arrese, nel maggio del 1945, gli alleati giapponesi protestarono perché volevano che la Germania continuasse a combattere. Ma che senso aveva…?».

Ma in guerra bisogna “combattere fino alla morte”?

«Vincere aut mori era un ideale nell’antichità e anche in seguito. Ma nella pratica militare la resa avveniva sempre quando la situazione diventava disperata. Il punto è stato definito da Clausewitz: c’è un punto a partire dal quale continuare a combattere non danneggia più il nemico, ma solo le proprie truppe; allora bisogna arrendersi, e un’ulteriore resistenza sarebbe, secondo Clausewitz, solo una disperata follia».

Qual è il significato della resa nella storia?

«Esiste una differenza tra armistizi, trattati di pace e capitolazioni. Gli armistizi e le capitolazioni sono passi militari, il trattato di pace è politica, anche se di solito le cose sono strettamente correlate. La Prima guerra mondiale si è conclusa con un armistizio, a cui è seguito un trattato di pace. L’esercito francese concluse un armistizio nel 1940, l’Italia si arrese nel 1943 e la Germania e il Giappone nel 1945. Un esempio antico potrebbe essere la resa (deditio) di Cartagine nella Terza guerra punica. Cartagine si ritirò dalla resa quando Roma ordinò di distruggere la città; riprese la lotta che poi portò alla completa distruzione di Cartagine».

Prof. Afflerbach la resa italiana del 1943 era quindi necessaria…

«Sì, certamente. Il punto descritto da Clausewitz – che un’ulteriore resistenza era senza speranza – fu raggiunto per l’Italia nell’estate del 1943. Direi che anche Mussolini l’aveva capito».

E oggi? Con lo sguardo rivolto alla storia, sarebbe pensabile una resa dell’Ucraina?

«È una decisione che spetta all’Ucraina stessa e a nessun’altro. Lo stesso non vedo la necessità militare al momento. Molte persone stanno morendo, ma l’Ucraina ha successo nel difendersi. Per quanto posso vedere, il popolo e la leadership ucraina sono determinati a non cedere. Gli obiettivi bellici russi e ucraini si escludono a vicenda: la Russia vuole concessioni territoriali ed il controllo politico dell’Ucraina, l’Ucraina vuole riconquistare il suo territorio nazionale e la piena indipendenza politica, compresa la possibilità di aderire all’ Ue e alla Nato. Questa guerra quindi continuerà e dovrà essere decisa sul campo di battaglia. Potrebbe finire quando una delle due parti vincerà militarmente, oppure quando entrambe le parti saranno stanche della guerra e saranno disposte a scendere a compromessi. Questo compromesso potrebbe includere concessioni territoriali da parte dell’Ucraina, ma la completa indipendenza del resto dell’Ucraina e l’accordo russo che il resto dell’Ucraina possa unirsi all’Occidente. Non sarebbe assolutamente ciò che nessuna delle due parti vuole, ma un compromesso a malincuore. Per raggiungere tutti gli obiettivi della guerra, una delle due parti dovrebbe vincere militarmente, cosa che al momento non sembra probabile. La guerra è in stallo. Allo stesso tempo, nessuna delle due parti è in una situazione così disperata da dover capitolare».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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