Uno dei grandi interrogativi che riguardano l’Etna ha trovato risposta grazie a un legnetto che ha viaggiato nel tempo, dagli albori dell’Olocene a oggi, incapsulato fra le rocce del vulcano attivo più alto d’Europa. La notizia viene ufficializzata con orgoglio dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, autore di un’eccezionale ricerca in collaborazione con l’Università degli Studi di Urbino.
La Valle del Bove ha finalmente una data di nascita e non c’è ormai alcun dubbio sul processo geologico che ha portato alla formazione di uno dei luoghi più affascinanti e popolari del Mongibello. Una vallata a forma di ferro di cavallo brulla e tagliente come la pietra di centinaia di colate laviche, che si estende ai piedi dei crateri dell’Etna e che per questo, da secoli, funziona come una sorta di bacinella per la lava della gran parte delle eruzioni che si originano nell’area sommitale della montagna.
Per questo le popolazioni etnee, e non solo, la conoscono bene e la guardano quasi con affetto. Tanto, “la lava finisce sempre (o quasi, ndr) nella Valle del Bove”, a decine di chilometri dai centri abitati del Catanese. Cioè in una grande porzione del vulcano dove, circa ottomila anni fa, deve essere avvenuta una grossa frana che ha ridisegnato il volto dell’Etna di quel tempo.
Quando in Sicilia si era in piena preistoria mentre, in Medio oriente, era già nata l’antichissima città di Gerico. A dare agli scienziati le certezze anelate da più di un secolo è proprio un legnetto. Un rametto proveniente dalla foresta preistorica dell’Etna che quella frana, tra il 7478 e il 7134 avanti Cristo, ha sepolto per sempre. O quasi. Gli scavi intorno al campo sportivo di Milo, Comune del versante orientale etneo, sono stati, per i ricercatori, un po’ come quel colpo di fortuna che, quando si tentano le imprese più ostiche, deve sempre verificarsi per arrivare all’obiettivo.
Spiega tutto il lavoro pubblicato sulla rivista scientifica ‘“Journal of Volcanology and Geothermal Research”, sintetizzato per noi dal direttore dell’Ingv-Osservatorio etneo di Catania, Stefano Branca, una delle firme della scoperta. «Fin dagli anni ’80 – spiega l’esperto – era accreditata l’ipotesi di una grande frana come evento che diede forma alla Valle del Bove e dunque alla morfologia dell’Etna per come la conosciamo oggi. Siamo riusciti a datare i detriti di quel crollo grazie al rinvenimento, a Milo, di una ceppaia che abbiamo potuto sottoporre alle indagini del carbonio-14 e paleomagnetiche».
In pratica non c’è alcun dubbio sull’età delle molecole di quegli alberi, travolti e conservati come un fossile da una frana che, secondo l’Ingv, non fu innescata da un’eruzione. «I grandi stratovulcani come l’Etna – sottolinea Branca – talvolta crescono così velocemente da essere molto instabili. Questo porta a grosse frane e sconvolgimenti. Anche oggi, con lo sviluppo rapido del cratere di sud-est, assistiamo a crolli e diffuso disequilibrio nella zona sommitale del vulcano».
La Valle del Bove è il frutto della frana riportata alla luce a Milo – un deposito detritico da 4,3 km2 – e di decine di analoghi fenomeni “di collasso di fianco” registrati tra 9mila e 7mila anni fa. Movimenti antichissimi, sconosciuti alle fonti storiche che, tuttavia, i ricercatori riescono sempre più a individuare, studiare e censire. Analizzando alcune cave sempre nell’area di Milo, il team Ingv-Università di Urbino ha evidenziato le tracce di almeno quattro eruzioni laterali dell’Etna avvenute fra età del rame, epoca greco-romana e Medioevo. Decisivo anche il contributo del laboratorio ad alta specializzazione di Paleomagnetismo della Sezione di Roma 2 dell’Ingv, definito il principale laboratorio paleomagnetico italiano ed uno dei più rinomati a livello internazionale.
«Sono risultati che si inseriscono – ricorda il direttore Ingv, Branca – in un filone di studi che migliora sempre più la carta geologica del vulcano pubblicata nel 2011”». Prezioso strumento per decifrare il comportamento dell’Etna e comprendere gli scenari di pericolosità vulcanica delle varie porzioni di territorio.