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“Ogni tanto u murticeddu vedi che serve” Clan Cappello pianificava omicidio giornalista “scomodo”

Di Redazione |

Catania – «Ma..ma perché non si ammazza, ma fallo ammazzare che cazzo ti interessa…». Non ha esitazioni il boss Salvatore Giuliano mentre ‘consiglià all’imprenditore Giuseppe Vizzini di fare uccidere il giornalista Paolo Borrometi, direttore del quotidiano online La Spia, collaboratore dell’Agi e presidente di Art.21, per le sue inchieste sul Siracusano. Il colloquio, che risale all’8 gennaio scorso, viene intercettato dalla polizia, che indaga sull’attentato dinamitardo avvenuto a Pachino (Siracusa) ai danni dell’automobile di una curatrice fallimentare nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Dda della Procura di Catania. Agli arresti, per quest’ultimo reato, su disposizione del Gip, finiscono Giuseppe Vizzini, 54 anni, i suoi figli Simone e Andrea, di 29 e 24 anni, e Giovanni Aprile, di 40. Tutti indagati per l’ordigno piazzato il 29 dicembre scorso sotto la vettura dell’avvocato Adriana Quattropani, che stava per porre i sigilli a un’area di servizio. 

E mentre “scava” sull’attentato, la polizia di Siracusa “ascolta” gli indagati e scopre il progetto di agguato al giornalista ‘scomodò Borrometi. Un episodio gravissimo, non contestato nell’ordinanza, ma riportato per dare forza all’aggravante di avere favorito la mafia ai quattro indagati. E’ Giuseppe Vizzini, scrive il Gip di Catania Giuliana Sammartino, a «commentare con i figli le parole di Salvatore Giuliano, il quale, forte dei suoi legami con i Cappello di Catania, stava per organizzare un’eclatante azione omicidiaria». Giuseppe Vizzini, parlando con i figli, intercettato, annuncia: “succederà l’inferno!», una «mattanza per tutti!». «Scendono 5-6 catanesi – prevede – un’auto rubata, una casa in campagna… la sera escono… dobbiamo colpire a quello! Bum a terra!». Giuseppe Vizzini riferisce ai figli le parole di Giuliano: «mi disse: ‘lo sai che ti dico, ogni tanto un murticeddu (un morto, ndr) vedi che serve! Per dare una calmata a tutti!’».

Quella registrata dalla polizia nell’inchiesta di Pachino è la punta di un iceberg di cinque anni di un’escalation di insulti, minacce, aggressioni e spedizioni punitive per Paolo Borrometi, 35 anni, originario di Modica (Ragusa), per le sue inchieste contro la mafia e il malaffare. Da tre anni è sotto scorta perché costante bersaglio di esponenti della mafia di Ragusa e Siracusa. Attorno a lui si sono stretti per esprimergli vicinanza e solidarietà esponenti di governo, politici, sindacalisti, associazioni, attori e società civile. Il premier Paolo Gentiloni gli ha telefonato manifestandogli «la vicinanza dello Stato nella quotidiana battaglia dell’informazione per la legalità e la democrazia». «Tutto il sostegno ai giornalisti minacciati dalle mafie che fanno con serietà e coraggio il proprio lavoro», come Paolo Borrometi e Federica Angeli, è espresso dal presidente della Camera Roberto Fico. Il leader del M5s, Luigi Di Maio, auspica che «i giornalisti che rischiano la vita per raccontare la verità, non siano lasciati soli dallo Stato» e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ricorda che “tutti noi dobbiamo molto a chi ogni giorno con coraggio racconta la mafia». «Siamo al fianco di Paolo Borrometi. Contro ogni minaccia e intimidazione mafiosa», afferma il segretario reggente del PD Maurizio Martina. Solidarietà al giornalista è arrivata anche dal governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che auspica la notizia «serva a scuotere le coscienze, sensibilizzando, ancora di più, l’opinione pubblica», e dal presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, che gli è «grato e vicino per il suo prezioso lavoro d’inchiesta». Ma anche da Fnsi, Ordine dei giornalisti, Unci, Libera, da Cgil, Cisl e Uil, dalla Fondazione Caponetto. E dagli attori siciliani Ficarra e Picone: «Piena solidarietà a tutti quei giornalisti che ogni giorno con coraggio raccontano il nostro Paese per tentare di migliorarlo: #NonLasciamoliSoli». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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