Laureatosi in Medicina e chirurgia nell’ateneo etneo, il prof. Paternò entrò in specializzazione di Neurochirurgia come primo vincente del concorso all’ospedale Garibaldi di Catania: «Sono stato un anno e mezzo a Catania – racconta – dividendomi tra i nosocomi Garibaldi e Cannizzaro. Poi mi sono spostato a Cesena, uno dei principali centri di Traumatologia in Italia, e lì ho avuto l’opportunità di stare moltissimo in sala operatoria. Infine, gli ultimi due anni di specializzazione, dal 2002, li ho fatti in Germania, ad Hannover, dove sono tuttora».
L’aggancio con Hannover, Vincenzo Paternò lo ebbe indirettamente tramite il suo primario dell’epoca, prof. Albanese, «che frequentava i corsi del prof. Samii, presidente e fondatore dell’Ini». Basti pensare che l’Ini di Hannover – realizzato nel 2000 per volontà del prof. Samii – conta un’altra clinica a Teheran, («Che stiamo realizzando con donazioni di 300 milioni di dollari al fine di creare una struttura di livello estremamente elevato a favore della popolazione») e altre due sedi in Cina («Abbiamo un ottimo rapporto col presidente della Cina, al quale abbiamo curato un familiare, e lui ha ci messo a disposizione due istituti all’avanguardia, affidandoci l’educazione dei neurochirurghi cinesi»).
L’aggancio con l’Ini, quindi, avvenne tramite il prof. Albanese: ma come mai la scelta, da specializzando, di questo istituto? «Il tutto nacque perché alcune patologie ben precise non si potevano operare al Sud Italia ed erano smistate al Nord. Questa cosa non la digerivo. Io sono cresciuto col principio che siamo tutti uguali e, se lei può fare una cosa, posso riuscirci anch’io. Basta semplicemente imparare: ma per farlo, occorre andare da chi quella cosa la sa fare. E il prof. Samii era il numero uno. Caso volle che quell’anno a Roma si svolgesse il congresso nazionale di Neurochirurgia dove il prof. Samii era l’ospite d’onore: ci andai per stabilire un primo contatto. Ricordo che alla fine della sua presentazione magistrale ci fu una standing ovation di almeno 15 minuti. Era circondato, come sempre, da un capannello di folla, quando mi avvicinai e gli chiesi la possibilità di frequentare all’Ini. Lui mi guardò, mi disse “va bene” e mi diede un bigliettino».
Una lezione di umiltà che forse alcuni inavvicinabili “baroni” italiani della medicina dovrebbero imparare: «Ne fui sorpreso, ma scoprii in seguito che ad Hannover è un’abitudine avere gente ospite. Pensi che, al di là degli studenti, dei colleghi e dei pazienti, arrivano persino persone da tutto il mondo facendo finta di essere malate soltanto per conoscerci: si presentano in ambulatorio, ci dicono che vogliono solo farsi una foto con noi e pagano la consulenza. È da pazzi. Significa idealizzare qualcosa o qualcuno che combatte ogni giorno per aiutare tutti. Per noi è quindi fondamentale rimanere sempre con i piedi per terra, avere una parola per tutti, ricchi, poveri, più o meno colti: siamo tutti essere umani».
Ad Hannover il prof. Paternò fece due anni di tirocinio durante la specializzazione. Il suo obiettivo rimaneva comunque quello di tornare in Italia: «Non avevo assolutamente alcuna idea di restare lì. Ma si instaurò talmente un rapporto di fiducia tra me e il prof. Samii che già al secondo anno fui inserito nel team. E, dopo la festa di addio per il mio rientro definitivo in Italia, il prof. Samii mi chiese se volevo restare. Caddi quasi dalla sedia, riflettei trenta secondi e accettai immediatamente. Tornai a Catania, superai l’esame di specializzazione e, nell’arco di un mese, mi trasferii definitivamente».
Oggi il prof. Paternò è responsabile di reparto, insegna come professore associato all’università di Hannover e, con la Wfns (la Federazione mondiale di Neurochirurgia), in tutto il mondo: «L’anno scorso abbiamo fatto corsi in Brasile e in Namibia, col progetto “Africa 100” stiamo formando 100 neurochirurghi in Africa. Sulla scorta di quanto ha sempre fatto il professore nella sua vita, lavoriamo su due fronti: operiamo i pazienti ed educhiamo i colleghi a livello mondiale». Tra le altre cose, il prof. Paternò è consulente d’onore per la Serbia e l’ex Jugoslavia. Dal punto di vista medico, è all’avanguardia, in particolare, per la chirurgia cerebrale tumorale complessa come basi cranio, tronco cerebrale e tumori in aree eloquenti cerebrali. All’Ini opera utilizzando risonanza magnetica intra-operatoria, navigatore, microscopio ed endoscopio tutto dedicato nella Brain Suite, una sala operatoria dal costo di costruzione di 5 milioni di euro: un sogno per tantissimi medici. «All’Ini ci occupiamo di tutto ciò che riguarda il sistema nervoso centrale e periferico: tumori, epilessie, malattie degenerative e così via. Non trattiamo urgenze, i nostri sono tutti pazienti elettivi con patologie molto importanti. Naturalmente, ci sono poi settori che ognuno di noi privilegia: il basi cranio è il mio, il neuroinoma dell’acustico è un tumore dell’orecchio cavallo di battaglia del professore Samii. Pensi che prima del 1970 tutti questi pazienti morivano, adesso non solo riescono a vivere, ma è preservato loro il facciale e l’udito: parliamo di miracoli, di grossi progressi». Con la consapevolezza che il fatto di essere circondato all’Ini di grandi nomi della Neurochirurgia come Fahlbusch, Bertalanffy, Valavanis, Harms, Draf, «mi ha permesso di ampliare la mia veduta in modo ineguagliabile. Sarebbe come lavorare in parallelo in 4-5 diversi istituti leader a livello mondiale».
Una passione, quella per la Neurochirurgia, nata da una pesante esperienza familiare: «Mio zio ebbe un incidente con la moto e il neurochirurgo gli salvò la vita. A casa si parlava sempre di questa Neurochirurgia e di quanto bella fosse stata l’azione di questo medico che aveva consentito a mio zio di tornare a una vita normale. Così, a 12 anni decisi che avrei voluto fare il neurochirurgo». Un esempio di successo professionale che ai giovani consiglia «di fare sempre quello per cui continuano a essere contenti quando si svegliano al mattino. Nel momento in cui, quando suona la sveglia, si lamentano o si percepisce che la voglia di alzarsi non c’è, allora non c’è altro da fare che cambiare lavoro. Qualsiasi cosa si faccia, bisogna farla col cuore».
Ottimo il giudizio del prof. Paternò sulla preparazione ricevuta a Catania. Eppure tanti giovani fuggono: «La mia – sottolinea – non è stata una fuga, ma quando un giorno l’ex cancelliere tedesco Schroeder, grande amico del prof. Samii, mi chiese: “Vincenzo, per quale motivo sei venuto qua ad Hannover?”, gli risposi: “Cancelliere, non sono venuto ad Hannover, ma dal prof. Samii”. Io mi reputo un cittadino del mondo. Posso vivere ovunque. Sicuramente la cosa più bella è stare nella propria città, anche perché siamo fortunati a stare in una terra splendida, purtroppo regolarmente maltrattata. Il concetto non è quello di scappare, ma di migliorare e avere le condizioni per essere felici e lavorare al massimo».
In Italia il problema non sono i cervelli (se non dei politici), ma i fondi: «Persone che sanno fare il loro lavoro ce ne sono ovunque. Dipende sempre da chi, come e cosa si è imparato e dalla capacità di mettere in pratica gli insegnamenti, sviluppando i concetti successivi». Perché la medicina è in continua evoluzione: «È sempre una continua ricerca del modo migliore per aiutare il paziente: rimuovere il tumore senza che il paziente resti paralizzato, riuscire a oltrepassare i limiti». Il rischio è però che, con la carenza di fondi, l’Italia resti sempre più indietro: «Non direi soltanto l’Italia, io guardo a livello globale. L’Italia oggi è in un’ottima posizione, abbiamo buoni contatti con il nostro Paese, però occorre investire. Una volta dissi al ministro della Salute degli Emirati arabi, che voleva che ci prendessimo cura della Neurochirurgia nel suo Paese, che l’idea di investire nella salute è sbagliato, perché si tratta di un investimenti a lunga scadenza: prima si spendono i soldi, si fanno le ricerche e solo dopo, e non a breve, si vedrà cosa verrà fuori».
Dall’Europa all’Iran, dagli Emirati alla Russia, dalla Cina all’America e fino all’Australia: l’Ini di Hannover, in nome del bene del paziente, riesce a bypassare le problematiche geopolitiche esistenti: «Per questo ci arrabbiamo. Noi dialoghiamo con colleghi da tutto il mondo senza avere problemi, perché il nostro obiettivo è salvare un essere umano: che sia ebreo, iracheno o cinese non importa».
Il prof. Paternò non si preclude la possibilità di rientrare in Italia o in Sicilia, «sono sempre aperto a tutto, nel momento in cui ci siano le condizioni per continuare a lavorare, non dico meglio di prima ma così come uno è abituato. L’idea di rientrare a Catania mi è balenata, però la dirigenza deve volere costruire qualcosa in maniera diversa, per evolversi. Ad esempio, il nuovo ospedale in Iran che stiamo costruendo sarà il più tecnologico del globo, con tre sale operatorie con risonanza magnetica intra-operatoria, Tac intra-operatoria, la medicina nucleare più evoluta del globo. Loro hanno creduto in questo progetto, con l’intento di coinvolgere tutto il Medio Oriente. Io personalmente ho visto tirare fuori somme da capogiro a scopo medico».
Anche perché la nostalgia della Sicilia comunque resta: «Mi manca la mia famiglia, il clima mediterraneo, il mare. La buona cucina non tanto, perché oggi la materia prima arriva dappertutto». Nostalgia ma non rimpianti: «Sono felicissimo della scelta che ho fatto. A volte mi chiedo come sarei se non fossi andato all’Ini: sicuramente non sarei la persona che sono adesso. Sono soddisfatto e non potrei non esserlo, però c’è sempre il pensiero che la cosa migliore sarebbe potere fare tutto questo a casa propria. Vedremo in futuro».