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Una siciliana in Cina: «Lì sono più avanti di almeno 50 anni»

Di Paolo Francesco Minissale |

Oggi parliamo con la giornalista 35enne catanese Ambra Schillirò, figlia del giornalista scomparso Nuccio Schillirò, andata in Oriente per un’esperienza di 3 mesi che si è trasformata in un’avventura di vita da 7 anni.

Come sei arrivata in Cina?

«Nel 2010, a marzo precisamente, stavo guardando un telefilm cinese (non chiedetemi perché, sarebbe una storia troppo lunga da raccontare) e sono rimasta affascinata dai luoghi, dalle persone e dalle dinamiche. Alla fine della puntata sono andata in cucina, ho guardato i miei genitori e ho detto loro: “Sapete che vi dico? Me ne vado in Cina”. E una settimana dopo mi trovavo a Pechino. Ho cercato un lavoro part time in un giornale locale (in lingua inglese) e, teoricamente, sarei dovuta rimanere solo tre mesi. Contemporaneamente, però, a Shanghai era cominciato l’Expo, così il giornale decise di mandarmi in trasferta a Shanghai. È stato amore a prima vista. Sono tornata a Pechino, ho fatto le valigie per tornare in Italia solo per fare dei bagagli più grandi e trasferirmi a Shanghai. Da quel giorno non sono più andata via».

Di cosa ti occupi a Shanghai?

«Inizialmente ho collaborato per diverse testate giornalistiche italiane e straniere, da Glamour a Lei di Rds, passando per Business China. Purtroppo però questi lavori occupavano solo la metà della mia giornata, lasciando l’altra metà completamente libera. La Cina corre, velocissima, stare con le mani in mano per uno straniero in Cina significa perdere tempo prezioso. Così ho cominciato a fare consulenze come addetto stampa. Alla fine, assieme ai milanesi Mattia Visconti e Marco Bettio, ho aperto, quasi 3 anni fa, la mia agenzia di ufficio stampa e marketing, Social Cloud (www.socialcloudchina.com) . Il nostro focus è l’enogastronomia e la moda, ma bazzichiamo anche tra l’arte e il cinema. La maggior parte dei miei clienti sono cinesi o stranieri, pochissimi italiani. Purtroppo il mestiere dell’ufficio stampa e del marketing è incredibilmente sottovalutato dagli italiani, sia in Italia che all’estero. Il nostro lavoro dagli italiani è spesso visto come quello di un rappresentante».

Cosa significa vivere dall’altra parte del mondo?

«La Cina è un Paese strano, pieno di contraddizioni. La percezione della Cina che arriva nei Paesi stranieri è completamente diversa da ciò che la Cina è realmente. Qualche mese fa ho tenuto una conferenza a Milano e una a Catania sul marketing e la comunicazione in Cina. Ho cominciato la presentazione con due slide molto provocatorie, come la gente percepisce la Cina e come è veramente la Cina. Nella prima parte ci stavano foto di cinesi in campagna con le ciotole di riso, tutti vestiti di rosso, negozi da 50 centesimi. La seconda pagina conteneva un video, su Shanghai. Il pubblico è rimasto sconvolto. Grattacieli, superstrade, alta velocità, applicazioni mai viste in Italia, luci, colori, velocità. Tecnologicamente e comunicativamente parlando, i cinesi sono più o meno 50 anni più avanti del resto del mondo. Per essere più chiari, vi racconto un aneddoto di qualche settimana fa. Mi trovavo a New York per lavoro, il tassista che mi stava portando dall’aeroporto all’hotel mi ha chiesto come fosse il mio impatto con la sua città. Era la mia prima volta a New York, nel mio immaginario (quello diciamo dei film e dei telefilm…) questa città era enorme, incredibilmente grande. La mia fantasia ha poi fatto i conti con la realtà di una che vive in una città da 26 milioni di abitanti (registrati) con grattacieli di più di 100 piani. La mia risposta al tassista è stata una sola parola: “piccola”».

Qualche esempio di questo avanzamento tecnologico?

«In Cina nessuno va in giro con il portafoglio. Non servirebbe a nulla. Paghiamo tutto con il telefono, con Wechat. In Italia la gente è convinta che wechat sia un servizio di messaggistica che copia whatsapp. La verità? Fuori dalla Cina non esistono le funzionalità che wechat ha in Cina. Io pago i ristoranti, le sigarette, il gas, la luce, ricarico il telefono, compro i biglietti aerei, gli hotel, tutto, con wechat. Immagina qualcosa che deve essere pagata, qualunque cosa, con wechat (e anche con alipay) si può pagare. Non mi ricordo neppure più cosa significhi andare in giro con il portafoglio».

Oltre a Social Cloud, fai altre attività in Cina?

«Sono fondatrice e presidente dell’Associazioni Siciliani in Cina (insieme con me nel Consiglio di amministrazione ci sono Stefano Scalone, Enrico Iaria, Andrea Rinaldi, Fabio Giacopello, Massimiliano Russo e Luca Di Cesar) e fondatrice del China Fashion Group, l’associazione delle persone che lavorano nel settore moda in Cina. Inoltre, ho un’attività di beneficenza che si chiama Hummus Lady, produco e vendo hummus e il ricavato viene donato ad un’associazione di beneficenza per bambini».

Quali sono i tuoi progetti futuri? Tornerai mai in Sicilia?

«Il più grande sogno di mio padre era quello di diventare grande nel suo lavoro nella sua terra. Per tanti anni non ho mai capito cosa volesse dire, ora lo so. Apriremo tra meno di un mese una seconda sede di Social Cloud in Italia, a Catania per essere precisi. Ci occuperemo sempre di marketing e ufficio stampa per le aziende che vogliono promozione in Cina. Abbiamo fatto una partnership con un’azienda di business development (presente in Cina da 13 anni) che si chiama 3Lab di Francesca Filippone e Lapo Tanzj: loro si occupano di aprire il mercato (sono quelli che hanno reso l’amaro Lucano il più venduto in Cina per intenderci), noi di promuoverlo. Tengo a sottolineare di nuovo che la nostra azienda, come tutte le aziende di marketing e ufficio stampa, non è un’azienda di rappresentanti e la Cina non è il Terzo mondo. A novembre ho fatto un giro in Sicilia per conversare con diversi imprenditori potenzialmente interessati al mercato cinese. Purtroppo, a differenza di quanto avvenuto durante il mio giro a Milano e New York, in Sicilia ho fatto dei grandi buchi nell’acqua. Ho trovato persone che mi hanno detto: “Tu dimmi che prodotto ti serve e io te lo faccio avere”, gente che mi ha chiesto di portare un campione (per essere precisi un sacchetto del prodotto) e farlo assaggiare ai cinesi, persone che mi hanno chiesto di lavorare a percentuale. Un peccato, enorme. Ma non mi arrendo. La base di Social Cloud Italia sarà in Sicilia comunque. Ho capito quello che intendeva mio padre, l’ho capito perché desidero esserlo anche io. Il progetto Social Cloud prevede inoltre l’espansione in America nel 2018, ma di questo magari vi racconterò un’altra volta».

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