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Una “diplomatica” vignaiola di Menfi dal cuore doc Sicilia

Di Maria Ausilia Boemi |

«La mia intenzione sin da bambina – racconta Marilena Barbera – era di lavorare all’estero e mi sono formata per intraprendere la carriera diplomatica». Ma a 25 anni la giovane di Menfi decide di rientrare in Sicilia «perché ho capito che non aveva senso vivere una vita estranea alle mie radici vere. Da adulti, si capisce che la cosa veramente importante è mettere a frutto a casa propria ciò che si è imparato in casa altrui».

Una vera e propria riscoperta delle sue radici siciliane: «Ho capito che la Sicilia me la portavo dentro e, ovunque andassi, continuavo a cercarla. E tornare con un bagaglio di esperienza considerevole, mi ha aiutato nel lavoro e nell’azienda».

Realtà che esisteva già come azienda agricola avviata dal nonno negli anni ‘20: «Non si produceva vino, ma uve (Insolia, Catarratto, Grillo, Zibibbo e Grecanico) che venivano vendute alle aziende di Marsala come basi per produrre il Marsala o alla Campari e alla Martini come basi per il vermouth». L’azienda poi passò al padre di Marilena Barbera, uno dei soci fondatori della Settesoli, la cooperativa vinicola di Menfi: «Per il periodo dagli anni ‘60 agli anni ‘80, le uve sono state vendute alla cooperativa. Abbiamo iniziato a produrre il nostro vino con le nostre uve tra il 1997 e il 1998, dopo il mio rientro nel 1996. All’inizio è stato un gioco di famiglia, un modo per stare tra di noi, con gli amici e i parenti, condividendo qualcosa di bello. Producevamo 500-600 bottiglie di vino all’anno, sperimentando in maniera molto naif, per noi e i nostri amici. Bottiglie che sono diventate nel tempo 1.000 e poi 2.000, perché gli amici le continuavano a chiedere in maniera sempre più consistente. Ma poi hanno iniziato a chiederle anche gli amici degli amici, che magari avevano chi un ristorante, chi un’enoteca e quindi questa cosa ha cominciato a diventare più seria. Nel 2000 abbiamo registrato il marchio e nel 2003 ci siamo trasferiti nell’attuale cantina».

Ecco che a questo punto, avendo vigne e cantine, Marilena Barbera ha cominciato a fregiarsi del titolo di “vignaiola”: «Essere vignaioli significa avere la proprietà delle proprie vigne e utilizzare per la produzione del vino esclusivamente, o almeno per grandissima parte, uve di proprietà, vinificare in proprio il vino (senza acquistarne da altri e senza utilizzare mezzi di altri per la vinificazione) e seguire anche tutte le fasi dell’imbottigliamento e della commercializzazione».

Sono circa 70.000 le bottiglie prodotte ogni anno in cantina da 15 ettari di vigne (alle quali si aggiungono un piccolo oliveto e un campo di grano): impresa a cui lavorano 6 persone.

Marilena Barbera è consapevole che, se non avesse avuto l’azienda di famiglia, difficilmente avrebbe intrapreso la carriera di vignaiola. Tuttavia, «la spinta per tornare era dedicarmi alla mia terra. Mi sarei quindi dedicata alla Sicilia probabilmente facendo altre cose. Però prendere in mano l’azienda era una opportunità bellissima, perché significava continuare a costruire, potenziando e mettendo a valore, un’eredità che mi apparteneva».

Nonostante non sia stato per nulla facile: e la difficoltà maggiore è stata quella basilare di «imparare a fare il vino: non ho più un enologo dal 2009 e ho riconvertito il mio percorso formativo – che era in tutt’altro campo – alla produzione. Imparare a fare il vino non è una cosa facile, è un’attività quotidiana che si affina, cresce e migliora nel tempo. È stata probabilmente una delle cose più difficili, ma anche più eccitanti ed interessanti, che ho affrontato negli ultimi anni della mia vita». Quella è la difficoltà “creativa”, poi ci sono quelle molto più noiose «di ordine amministrativo-burocratico, che sono le peggiori, perché è una specie di lotta per la sopravvivenza nella incredibile complessità e farraginosità del sistema amministrativo-burocratico di produzione del vino. Io credo che le aziende vinicole abbiano un carico burocratico superiore ai produttori di armamenti. E non lo dico a caso: credo che dovere comunicare ogni settimana a mezzo telematico i movimenti di cantina ad enti che ti controllano, non lo devono fare nemmeno i produttori di armi. Può così essere faticoso fare le fiere, impegnativo cercare un importatore, difficile andare alla ricerca di clienti sani e solvibili, però quando hai risolto ognuno di questi problemi, ne ricavi una grandissima soddisfazione, perché porti un pezzettino di Sicilia all’attenzione di un Paese dall’altra parte del mondo. Sopravvivere invece al carico burocratico quotidiano, non dà alcuna soddisfazione».

Ed è proprio il portare un pezzetto di Sicilia nel mondo l’attività in cui si “innesta” la vocazione diplomatica di Marilena Barbera: «Esportiamo più del 50% della nostra produzione. I mercati principali di destinazione sono Usa e Cina, ma esportiamo anche in Giappone, Canada, Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda e Danimarca».

Una ricerca, questa dei mercati esteri, poco supportata dalle istituzioni, almeno per le piccole aziende: «Esiste un programma di investimento finanziato da fondi comunitari che si chiama Ocm vino, che finanzia la promozione in Paesi non europei. Ma in Italia le aziende possono essere finanziate solo se presentano progetti di investimento superiori a 100mila euro all’anno: ciò significa che una piccola azienda ne è completamente tagliata fuori. Vero è che le piccole aziende potrebbero costituire dei consorzi o delle associazioni, però i costi di gestione del gruppo sono talmente elevati che alla fine la percentuale di finanziamento non supera il 25%. A questo punto, il mercato estero preferisco cercarmelo da sola».

Pochi gli spazi per entrare nel mercato enologico per chi parte da zero: «Se avessi un ettaro di terreno vuoto e volessi piantarci una vigna, non potrei legalmente farlo. L’unica cosa che posso fare è acquistare una vigna già esistente e, per fare ciò, occorre un bel capitale. Sono regolamentazioni pensate a tutela del mercato per evitare la sovrapproduzione: ma in un contesto come quello italiano – e siciliano in particolare – in cui i vigneti vengono estirpati, con un forte depauperamento del patrimonio vinicolo, una misura del genere è fortemente limitativa».

Eppure il vino siciliano vive un momento d’oro a livello mondiale: ma non c’è il rischio che si esaurisca questo boom? «Il vino siciliano è una macro-categoria ed è difficile che nel suo complesso possa crescere sempre. Esisteranno piuttosto delle nicchie di mercato in cui la qualità verrà sempre più premiata: sono convinta che saranno quelle del vino di grande qualità, con un fortissimo legame con il territorio di appartenenza. Un po’ quello che stanno facendo i produttori dell’Etna. Quelle nicchie di mercato in cui si punta in maniera fortissima sull’identità territoriale e sull’eccelsa qualità dei vini sono sicuramente le zone del mercato Sicilia che cresceranno anche nel futuro. Sul vino siciliano di basso prezzo per il consumo di massa, non ho invece una visione rosea del futuro, perché ci si scontra con altre regioni del mondo con costi di produzione più bassi, senza barriere, limitazioni e burocrazia come da noi».

E infatti tra i progetti di questa pugnace vignaiola c’è «la realizzazione di vini da varietà antiche quasi completamente estinte. In Sicilia esistono 108 varietà di vitigni autoctoni – un patrimonio di biodiversità straordinario – ma le varietà utilizzate sono una ventina. Abbiamo dunque un patrimonio di almeno 80 vitigni sui quali potere sperimentare, vitigni di interesse locale che, secondo me, traineranno nei prossimi anni la riscoperta dei territori minori. Non credo quindi nella doc Sicilia, ma nei vitigni locali che appartengono esclusivamente alle piccole regioni del vino e che possono trainare l’attenzione e il mercato, soprattutto estero, sui piccoli territori marginali della Sicilia, come ad esempio Menfi. Intendo dunque piantare queste varietà totalmente sconosciute: ho già piantato Lucignola e Vitrarolo, due delle ottanta varietà sconosciute».

Nessun rimpianto, anche se quello legato alla terra è «un lavoro faticoso, fisicamente provante: non è come stare in ufficio con l’aria condizionata e le scarpe col tacco. È molto faticoso, però le soddisfazioni sono veramente straordinarie. Quando sono depressa, penso che in quel preciso momento in una parte qualunque del mondo, c’è una persona che sta bevendo vino fatto a Menfi. Questo ti ripaga di qualunque fatica».

 

E in realtà in questo lavoro Marilena Barbera mette a frutto anche la sua formazione: «Per un periodo ho pensato di avere abbandonato la carriera diplomatica, in realtà ora penso che la sto facendo, sia pure in un altro modo, soprattutto nel settore commerciale e di comunicazione. I miei vini sono molto più conosciuti a San Francisco che a Palermo e l’approccio internazionalistico dei miei studi mi ha aiutato tanto».

Cosa consiglia ai giovani? «Di studiare seriamente. Non importa il settore di studio in cui ti sei preparato: la serietà di metodo nello studio è un patrimonio personale e di risorse che ti ritrovi in qualunque settore in cui tu voglia cimentarti da grande».

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