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Un ingegnere siciliano “mago” dell’elettronica dei cellulari a San Diego

Di Maria Ausilia Boemi |

Partendo dal centro della Sicilia e “sognando California”, il 37enne ingegnere elettronico nisseno Calogero Presti che, col suo lavoro, consente a chiunque di comunicare con lo stesso cellulare da qualsiasi parte del mondo si trovi, da componente e pilastro del villaggio globale vive a San Diego.

Laureatosi nel 2005 in Ingegneria elettronica all’università di Catania e contemporaneamente alla Scuola superiore dell’ateneo etneo, l’ingegnere Presti ha fatto il dottorato di ricerca finanziato da St Microelectronics a Catania: «Ma ho notato che, sebbene quello di St fosse un ambiente di ricerca, non venivamo mai in contatto con altre parti dell’azienda: era come se da St ci fosse una certa reticenza». Durante l’ultimo anno di dottorato, l’ingegnere Presti ottiene anche un contratto di ricerca con l’Università della California a San Diego. Alla fine del dottorato, «mi sorprese il fatto che, nonostante il mio percorso fosse stato pagato da St, nessuno in azienda mi chiese cosa volessi fare, dove volessi andare. Ho allora contattato il docente che mi aveva seguito a San Diego, chiedendogli un lavoro di post doc. E lui mi ha assunto: in America non c’è il concorso ma, essendo un ambiente meritocratico, i professori prendono solo quelli con cui hanno lavorato bene, senza fare lavori a nessuno. Mi ha offerto un piccolo salario e la possibilità di stare un altro anno a San Diego. Mi sono così trasferito nel gennaio 2009 con mia moglie e ho iniziato subito a lavorare con l’università». Nel frattempo, però, durante il periodo del dottorato, alla Qualcomm, «azienda al top mondiale nell’elettronica dei cellulari per la quale lavoro tuttora, stavano programmando una nuova linea di prodotti e cercavano personale. Mi avevano fatto un’intervista nel gennaio 2008 ma non mi avevano preso. Tuttavia, verso la fine del 2009, mentre ero all’università a San Diego per il post doc, Qualcomm mi richiamò per assumermi. Ho così iniziato a lavorare per loro nel gennaio 2010. Il mio lavoro consiste nel realizzare amplificatori per telefoni cellulari: sembra una cosa banale, ma in realtà è un business importante perché lo stesso cellulare deve funzionare nelle diverse parti del pianeta che utilizzano però frequenze operative differenti da Paese a Paese. Per funzionare ovunque, quindi, il telefono deve possedere amplificatori di filtri». Oggi la qualifica dell’ingegnere Presti è senior staff: «Non sono formalmente un manager, ma ho un piccolo team con cui seguo un prodotto, dalla concezione fino alla produzione». Inoltre, da un paio d’anni l’ingegnere Presti tiene un corso di elettronica all’università di San Diego.

Ma cosa ha spinto, al di là della voglia di fare un’esperienza all’estero, il professionista nisseno a lasciare l’Italia? «In America ho trovato un’apertura e una fiducia sincera che mi ricorda quella che la direzione della Scuola superiore dimostrava nei confronti miei, dei miei colleghi e delle nostre capacità».

Una analisi che pone la Scuola superiore di Catania un po’ controcorrente in Italia: «Io ritengo di sì, in quanto ho visto nei docenti della Scuola un approccio che definirei non paternalistico nei confronti dei giovani. In Italia si dice sempre: c’è il problema dei giovani. In America i giovani non sono considerati un problema, ma una risorsa da sfruttare sinceramente, con delle regole ben precise, esigendo molto, in primis serietà nello studio, chiedendo loro di iniziare a fare ricerca da giovani, e di contro aprendo loro le porte. Succede in America ed è quello che ho visto nella Scuola, ma non posso dire di averlo constatato al 100% né in parti dell’università di Catania né in parti di St. E con questo non intendo dire che tutto va male all’università di Catania, però ho avuto spesso la sensazione che l’ateneo avesse due opinioni contrastanti sulla Scuola superiore: alcuni dei docenti universitari hanno compreso quanto questo progetto potesse essere importante per la città e quanto potenziale avesse di richiamare studenti da altre regioni, cosa rarissima in Italia, soprattutto dal Nord verso il Sud; altri, invece, hanno visto la Scuola come una sorta di minaccia al loro predominio dentro un dipartimento».

In America, invece, c’è nei confronti dei giovani un atteggiamento «intriso di fiducia sincera, non paternalistica. Qualche tempo fa, un docente dell’università di San Diego, persona affermatissima nel suo campo, mi spiegava perché gli piaceva fare il professore all’università: gli consentiva di continuare a essere in contatto con i ragazzi desiderosi di imparare e gli permetteva di restare al passo con gli sviluppi della tecnologia. Mi chiedeva quindi: “Ma tu come farai quando avrai 45-50 anni e in Qualcomm ti ritroverai tutti questi giovani che sanno fare il tuo lavoro molto meglio di te?”. È dunque una prospettiva completamente diversa, dove il giovane non è una persona da dominare, ma è anzi quasi una minaccia».

L’ingegnere Presti ribadisce quindi che il suo percorso di studi a Catania è stato valido, ma «per una serie di fortunate coincidenze: perché la Scuola superiore mi ha indirizzato. Il contatto con certe figure ha aiutato me e i miei colleghi a crescere in quei primi anni. Inoltre, ho attraversato l’università trovando sulla mia via le eccellenze dell’ateneo di Catania (Palmisano, Scuderi, Carrara) che mi hanno aiutato a crescere». I cervelli, però, una volta in possesso di una solida preparazione, fuggono: «Questo è dovuto non solo a un discorso finanziario ed economico, ma di ambiente di lavoro: personalmente, ho sentito in America questa fiducia sincera e non paternalistica nei confronti delle mie capacità. Penso che sia un’esperienza che anche altri avranno vissuto e ciò, unito all’opportunità concreta di lavoro, alla fine invoglia».

Nessuna prospettiva di tornare in Sicilia, riportando a casa le sue conoscenze ed esperienze: «Il lavoro che faccio io non c’è in Sicilia». Della sua Isola gli mancano «i classici: la famiglia, gli amici e il cibo. Ma la famiglia fortunatamente ci viene a trovare spesso; degli amici, alcuni come i dottori Scuderi e Carrara, si sono trasferiti qui a San Diego dopo di me; e per il cibo ci si può organizzare. Mi manca però l’Italia in generale come cultura e storia: se si va nel centro storico di San Diego, la casa di mia nonna era più antica di quella più vecchia qua». Anche perché, di contro, San Diego, per chi ha figli come l’ingegnere Presti (un bambino di 6 anni e una bimba di 3), offre tantissimo: «La fiducia nei confronti dei giovani si estende anche nei confronti dei bambini. Qui molto ruota attorno alla crescita dei figli: dai parchi alle scuole, si percepisce che il bambino è una risorsa sacra che viene coltivata dai genitori ma anche da tutta la società. Penso che i miei figli stiano meglio qui a San Diego che in Sicilia e non è soltanto una questione di lavoro: col mestiere che faccio non si diventa ricchi, perché è vero che si guadagnano tanti soldi, ma si paga anche tutto. Faccio un esempio: la retta dell’asilo privato prima che il bambino raggiunga l’età per andare alla scuola pubblica varia tra i 1.200 e i 1.600 dollari al mese. Gli stipendi sono alti, ma i soldi se ne vanno. Allora perché si resta? Si potrebbe tornare in Sicilia, guadagnare meno soldi ma vivere bene perché il costo della vita è molto, molto più basso. Ma poi si riflette: i bambini possono trovare le stesse risorse che abbiamo qui? Qui nel giro di poche miglia abbiamo lo zoo di San Diego, che è uno dei più grandi al mondo, Legoland, Disneyland, parchi immensi a non finire: questo è un altro mondo per i bambini e ciò mi convince a restare qui, più del lavoro. E poi un domani i miei figli avranno opportunità diverse, almeno spero».

Un altro mondo, in altre parole: e l’Italia dovrebbe anzitutto «smetterla di parlare del problema dei giovani. I giovani non sono un problema, i giovani sono il futuro. E poi in Italia la norma è che all’università si assumono come dottorandi o post doc soltanto persone del luogo. Questo perché i professori hanno paura di prendere persone di altre università che possono mettere in discussione la loro conoscenza, la loro autorità. Allora si contornano di persone che hanno studiato lì, hanno fatto lì il dottorato e poi diventano post doc e addirittura professori nella stessa università dove hanno studiato. Questo fa malissimo, perché non fa girare le idee e rivela anche nel sottofondo qual è la causa: i giovani devono essere dominati, quindi è meglio non farli girare perché altrimenti darebbero fastidio. In America, invece, pur non essendoci alcuna legge a riguardo, è considerato deplorevole diventare professore nell’università in cui uno ha studiato, è una cosa inaudita: qui tutti si muovono, e i professori fanno a gara per accaparrarsi i migliori studenti perché così possono ottenere i migliori progetti di ricerca e continuare a crescere. C’è quindi un circolo virtuoso in cui il docente è completamente responsabile dei risultati della propria ricerca e continua a cercare le persone migliori: si crea così competizione e, all’interno di questa competizione, la gente si muove da un ateneo all’altro, da un’azienda all’altra. Certo, se in Italia il sistema è quello, è difficile pretendere di cambiarlo, non si può biasimare il singolo docente che fa determinate scelte per sopravvivere: la meritocrazia, però, così non c’è».

Ma allora cosa consigliare ai giovani? «Consiglierei di avere una mente aperta, di fare un’esperienza all’estero, di muoversi da un’università all’altra, di cercare di contornarsi di persone ricche non di potere ma di idee, di valutare i docenti per la ricerca che fanno e non per il potere che hanno dentro un ateneo». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA