«Questa collaborazione tra me e il dott. La Francesca – spiega il 50enne dott. Triolo – è stata in gran parte resa possibile dal fatto di avere la stessa mentalità e la stessa cultura, il che ha potenziato la collaborazione tra i nostri due istituti». In particolare, Saverio La Francesca ha inventato e sviluppato a livello pre-clinico la tecnologia, dopodiché si è rivolto a Fabio Triolo perché voleva applicare questa tecnologia nella clinica, quindi sull’uomo. «Il mio contributo – spiega il dott. Triolo – è stato quello di modificare questa tecnologia in maniera tale che fosse applicabile nell’uomo». L’intervento è stato effettuato il 4 maggio e il paziente, affetto da un tumore ai polmoni che aveva invaso il cuore e l’esofago in maniera tale da rendere impossibile qualsiasi trattamento chirurgico tradizionale, oggi sta bene. «La parte dell’esofago del paziente invasa dal cancro è stata rimossa e al suo posto è stato cucito l’impianto esofageo costruito in laboratorio».
Il dottor Saverio La Francesca della Biostage
Il processo per costruire l’esofago bioartificiale in laboratorio, in camere bianche registrate con l’FDA, è durato circa 3 settimane: «Siamo partiti da una biopsia di tessuto adiposo prelevato dall’addome del paziente – spiega il dott. Triolo – e inviato ai miei laboratori. Qui la mia squadra ed io abbiamo processato il tessuto adiposo per isolarne le cellule staminali, che abbiamo poi dovuto espandere in laboratorio per raggiungere il numero di cellule necessarie per poterle seminare sull’impalcatura sintetica, dalla forma di esofago. Abbiamo quindi coltivato le cellule sull’impalcatura in uno speciale bioreattore: così le cellule sono cresciute, si sono moltiplicate e hanno ricoperto interamente la superficie dell’impalcatura. A quel punto, l’organo bioingegnerizzato è stato trasportato in aereo nell’ospedale dove si trovava il paziente e dove aspettava il dott. La Francesca: qui hanno rimosso la parte dell’esofago invasa dal cancro, rimpiazzandola con l’esofago bioartificiale».
Un unicum nel mondo: «La cosa bella – continua il dott. Triolo – è che dalle cellule di questo impianto partono segnali cellulari che parlano alle cellule esofagee circostanti, inducendone la proliferazione: dalle cellule esofagee circostanti comincia quindi a partire la rigenerazione dell’esofago sulla superficie esterna dell’impianto bioartificiale, che viene ricoperto interamente. Dopo che l’esofago si è rigenerato, attraverso un intervento in endoscopia viene infine tolta l’impalcatura sintetica e quello che resta è il pezzo di esofago nativo del paziente stesso rigenerato».
Il dott. Triolo, laureato in Biologia a Palermo, dottorato di ricerca in Chimica sempre a Palermo, Master of Philosophy (M.Phil.) e Doctor of Philosophy (Phd) in Scienze biomediche al Mount Sinai School of Medicine di New York, dopo alcuni anni all’Ismett di Palermo dove ha fondato l’Unità di medicina rigenerativa e terapie cellulari, oggi è professore associato al dipartimento di Chirurgia pediatrica e dirige il Nucleo terapie cellulari dell’UTHealth di Houston: «Il mio ruolo – spiega – è traslare promettenti tecnologie terapeutiche sviluppate da ricercatori a livello pre-clinico in processi che possano essere usati per produrre cellule e prodotti di ingegneria dei tessuti per applicazioni cliniche di medicina rigenerativa». Una sorta di ponte tra il ricercatore di base e/o il medico che sviluppa una tecnologia e l’applicazione clinica sull’uomo: «La mia expertise sta nel processare tessuti o organi per produrre terapie cellulari e prodotti di ingegneria tessutale, secondo i regolamenti nazionali e internazionali». In nome del fondamentale principio che il potenziale beneficio per il paziente deve essere sempre superiore al potenziale danno che il paziente può avere: «E questo può essere assicurato soltanto facendo prodotti della più alta qualità possibile».
Il dottor Fabio Triolo dellUTHealth di Houston
Un cervello in fuga dall’Italia che però a Palermo occupava un’ottima posizione: all’Ismett, infatti, il dott. Triolo aveva reso operativi gli unici laboratori di produzione di terapie avanzate a sud di Roma. Perché allora l’addio all’Italia? «La mia esperienza all’Ismett è stata proficua per tanti anni, però a un certo punto c’è stato un cambiamento politico-amministrativo che ha modificato equilibri e modalità di gestione nell’istituto. Ciò ha portato me e diversi altri professionisti a decidere di andare verso realtà più adatte a crescere e potenziare la nostra carriera e professionalità».
Spiega poi in maniera più esplicita: «Io ho bisogno della mia indipendenza, che ai ricercatori negli Usa è concessa mentre in Italia c’è la tendenza a limitarla fortemente».
Una censura che non lascia spazi a un eventuale ritorno in Italia: «Tanti miei amici italiani negli Usa sono “cervelli in fuga”. Le assicuro che ognuno di loro sarebbe rimasto in Italia, se il nostro Paese avesse fornito condizioni adeguate. La Sicilia è uno dei posti geograficamente più belli del mondo, la nostra vita sociale è magica, il nostro cibo è ottimo, per cui quando una persona se ne va, non è mai una scelta facile. Eppure io questa scelta la rifarei diecimila volte e né io né mia moglie Tiziana ci sogneremmo mai di tornare in Italia: siamo ben felici di stare qua, soprattutto perché il nostro trasferimento non è stato solo un miglioramento significativo per la nostra carriera, ma anche perché abbiamo dato un futuro ai nostri figli Désirée e Roberto. La cosa bella negli Usa è la meritocrazia: non serve conoscere nessuno, se uno produce il limite è solo il cielo».
Una chimera in Italia, dove pure la preparazione universitaria è ottima. E l’analisi del dott. Triolo su cosa manca all’Italia per eccellere nella ricerca è impietosa, come può permettersi una persona che sa che non tornerà nel Belpaese: «È vero, la preparazione base che dà la nostra università sino alla laurea (perché poi per le specializzazioni gli americani ci battono) è migliore di quella Usa. Però qui il baronato che c’è in Italia non esiste: conosco tanti giovani ricercatori brillanti che in Italia sono schiacciati dai loro superiori che si prendono i meriti dei giovani. In America è l’opposto: al giovane viene data l’opportunità di crescere e di creare il proprio successo col duro lavoro. Qua il mio successo individuale è visto dai miei superiori come un contributo al loro successo, perché sono loro che mi hanno reclutato e hanno investito su di me: di conseguenza, il fatto che io produca è in parte anche merito loro. Inoltre qui, se uno produce, è gratificato professionalmente ed economicamente. In Italia, purtroppo, la meritocrazia non esiste. Quando sono tornato in Italia con il PhD conseguito negli Usa, mi sono presentato all’allora direttore del Cnr a Palermo che, a un certo punto, mi ha detto: “Dott. Triolo, lei se ne andato negli Usa per 5 anni e ora torna e vorrebbe un posto per lei? Mi dispiace ma c’è una fila di persone prima di lei”. Non contava che il mio curriculum fosse molto più corposo di quello altrui: quelle persone erano in fila prima di me. Non è così che si potenzia la ricerca in Italia: si deve fare una selezione seria dei ricercatori, permettendo ai migliori e ai più produttivi di lavorare, abbandonando gli schemi legati a clientelarismo e raccomandazioni».
Senza nascondersi dietro il paravento della mancanza di fondi: «I fondi per la ricerca ci sono, sia pure in questo momento storico ridotti ovunque nel mondo, il che rende comunque il sistema ancora più competitivo. Piuttosto, ho potuto notare che gli italiani mediamente non sanno scrivere progetti di ricerca. E non lo sanno fare perché non viene loro insegnato».
Cosa consiglia allora ai giovani? «Non cercare scorciatoie nella vita, ma creare il proprio curriculum un mattone dietro l’altro sul duro lavoro, perché i risultati ottenuti col duro lavoro e con onestà intellettuale restano. Lavorare duramente dal punto di vista professionale ed essere sempre onesti dal punto di vista intellettuale, perché in questo modo costruiscono il loro curriculum, ma anche la loro reputazione che li seguirà per tutta la vita. Dopo o durante la formazione italiana, trascorrere un periodo all’estero, dove c’è una mentalità diversa e si fanno cose diverse. Uscire dall’Italia apre la mente».
Tra i progetti di punta del dott. Triolo, c’è la continuazione della collaborazione con dott. La Francesca per impiantare altri impianti bioartificiali su altri pazienti: «Inoltre, il mio laboratorio sta sviluppando un progetto con cui intendiamo utilizzare la gelatina di Wharton (una sostanza mucosa piena di cellule staminali all’interno del cordone ombelicale), che io definisco un prodotto di ingegneria tessutale naturale, per la riparazione di casi di palatoschisi potenziando la rigenerazione ossea. Spero entro i primi mesi del 2018 di avviare le applicazioni cliniche sull’uomo».
Ma è quando gli si chiede qual è il suo successo più grande che riemerge la “sicilitudine” del dott. Triolo: «La mia famiglia, non c’è dubbio. Ho la fortuna di avere una grande moglie che mi ha supportato anche nelle scelte più difficili. La cosa incredibile è che non ho fatto niente per meritare la mia famiglia, ma mi è stata semplicemente donata dalla vita».