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Sonia, la “sarta” custode del vigneto e dei segreti di don Alfio

Di Carmen Greco |

Viagrande (Catania) – Il vigneto è il “santuario”, la sacerdotessa è lei, Sonia Spadaro Mulone, moderna vestale di un luogo che l’ha folgorata negli occhi e nell’anima. Da quando conobbe don Alfio, contadino “patrimonio dell’umanità” uno che potava le piante solo con la luna calante “per non farle piangere”. Prima di andarsene, don Alfio le ha trasmesso tutto quello che sapeva, compreso l’amore per quei tralci rugosi e contorti che sbucano dalla terra. Èd è lì, a Viagrande, zona sud est dell’Etna, in questo vigneto tutto in salita che si arrampica con 150 metri di dislivello sui fianchi del Monte Ilice, che Sonia è diventata “custode” e madre di vitigni, tecniche, saperi e tradizioni. Tutto ciò che è riuscita, con l’aiuto di una piccola grande squadra appassionata, a trasmettere nei suoi vini pluripremiati. L’ultimo riconoscimento è quello della rivista Decanter (una delle più prestigiose sul mondo del vino con edizioni in 90 Paesi del mondo ndr) che, nello scorso numero di gennaio ha inserito il bianco “Millesulmare” 2016, tra i 50 “Most Exiting” vini al mondo (e la lista contiene solo 4 vini italiani, di cui 3 del nord). E dire che Sonia, 34 anni, sposata con Riccardo e un bambino, Diego, non beveva vino, finché non ha conosciuto suo marito. «Mi portò fuori a cena a Taormina, ordinò una bottiglia ed io che mi vergognavo a dire di non bere vino, cominciai a pontificare sui profumi, il colore, il sapore di quel vino… poi ho confessato – ride divertita -. Però, da quel momento, mi sono appassionata, era come se dentro di me ci fosse questa passione necessitava solo di una piccola spinta per venire fuori, ho fatto un corso, sono diventata sommelier e da lì è nato tutto».

Le prime barbatelle che si notano sul terreno di Monte Ilice sono di un vitigno “dimenticato”, uno di quelli classificati secondo uno studio dell’Università di Catania come vitigni “reliquie” piante di Madama bianca e Madama nera, subito appresso ci sono altre 3/400 piante, altri vitigni autoctoni dell’Etna, alcuni quasi estinti, molto rari o non ancora identificati, piante con almeno 150 anni di vita e pre-fillossera, la malattia che nella metà dell’800 distrusse la maggior parte dei vigneti italiani. «L’obiettivo – spiega Sonia Spadaro – è fare bottiglie che riescano a restituire le emozioni che davano una volta questi vini. A parte proteggere questo patrimonio della viticultura dell’Etna che è preziosissima, spero che un giorno mio figlio Diego possa usufruirne come stiamo cercando di fare noi. In realtà è un esperimento, non sappiamo nemmeno quale potrà essere il sapore di un vino prodotto con queste uve. Sarà una scoperta anche per noi».

Laureata in Economia, la grande passione di Sonia è sempre stata, in realtà, l’archeologia. In qualche modo, però, c’è riuscita. Riesumare vitigni antichi, in fondo, è come riportare reperti preziosi alla luce. «Quando mi dicono questo mi viene la pelle d’oca. Prima i miei figli erano loro (le piante ndr), ho vendemmiato quanto ero incinta di tre mesi. È una passione, senza passione non riesci a fare niente, quando riesci a coniugare la passione con il lavoro non c’è nulla di più bello, ti diverti e la fatica quasi non ti pesa». In realtà è molto faticoso lavorare su questi terreni. Sia sul vigneto di Monte Ilice (due ettari e mezzo prevalentemente di Nerello Mascalese e Cappuccio) che su quello “estremo” di Contrada Nave – da cui il nome dell’azienda SantaMariaLaNave – fra Randazzo e Maletto, a 1.100 metri, terra di Grecanico Dorato e del quasi estinto Albanello, sul versante nord ovest dell’Etna, dalla parte opposta. Ma entrambi i vigneti sono faticosi da lavorare (tra l’altro in regime di biologico certificato) incarnazione perfetta di quella viticoltura “eroica” di montagna. «Ad ogni vendemmia tremiamo, una volta gli uccelli, poi la grandine, il terremoto, la neve, un anno di fatica può andare in fumo in un attimo…».

Tanto più che un’azienda, al di là della poesia, è un’impresa che deve fare utili. «Questo è vero, in tanti mi hanno detto, “ma perché non togli un pezzo di bosco e allarghi il vigneto?”, Ma io non voglio, a me non interessa guadagnare di più, mi interessa quello che c’è dietro tutto questo, la ricerca con l’Università, lo studio, il lavoro costante, la natura che va avanti da sola e continuare a sperare che Dio ce la mandi buona, anche con il tempo. Il terreno qui è benedetto essendo un terreno vulcanico c’è veramente tanto dentro». Don Alfio Puglisi il vecchio proprietario del vigneto di contrada Monte Ilice metteva gli alberi da frutto tra le viti, come si faceva una volta, pesco, prugno, albicocco, alberi che sono ancora qui come antiche “penati” che vigilano su una casa. «Io non mi considero un’imprenditrice, ma una piccola sarta che fa il vino come se fosse un abito su misura. Metto cura in quello che faccio, veramente tratto il vino come un figlio, la bottiglia, il tappo, l’etichetta, quello che c’è dentro… Per me è tutto importante. Poi sono dell’idea che se tu hai un grappolo sano in vigna, se fai un ottimo lavoro, se fai di tutto per non alterare quello che è la natura, in cantina non devi fare niente, non c’è bisogno di fare chissà quale make up».

Oggi l’Etna è molto ricercata, tutti vengono a comprare terreni qui, è un buon segno?

«Penso di sì, penso sia bello anche per questo, finalmente si sta riconoscendo l’importanza del nostro territorio spero che noi – che ne facciamo parte – riusciremo a farlo conoscere ed apprezzare ancora di più perché l’Etna che oggi si percepisce è soltanto la punta dell’iceberg, dietro c’è molto altro. Quello che facciamo noi, quello che fanno tanti altri miei colleghi è importantissimo, noi siamo dei “custodi”, io sento molto la responsabilità di preservare tutto questo per le generazioni future. Senza una storia, senza un passato come facciamo a vivere il presente e guardare al futuro?».

Brillano gli occhi a Sonia Spadaro, quando guarda le “sue” figlie-piante, quando ripensa al rapporto con don Alfio, alle amorevoli “cazziate” che le faceva, alla loro perfetta corrispondenza d’intenti, al passaggio del testimone con il quale ha accettato e condiviso l’impegno della memoria e la scommessa per il futuro. Si sono conosciuti per caso. Lui cercava un successore, dopo 50 anni non ce la faceva più a curare il vigneto. «Ho letto un’inserzione, lui voleva vendere questo terreno e l’ho contattato. Cercavo un posto magico, avevo girato tanto. Sull’altro versante la famiglia di mio marito aveva un vigneto ma per fare poche bottiglie da consumare in proprio. Lì aveva iniziato tutto nonno Peppino Mulone, nel ‘54. Io cercavo un posto altrettanto ricco di pathos, che trasmettesse emozioni. Don Alfio L’ho conosciuto in inverno, subito dopo Natale, pioveva, il cielo era un po’ cupo, ma nonostante questo, quando sono arrivata qui mi sono innamorata del posto e da lì ci siamo piaciuti subito. Mi ha insegnato tutto, a sentire la terra, a raccoglierla con la mani, la fatica, l’umiltà, il rispetto, la pazienza. Io quando sono qui lo sento, lo sento sempre accanto a me. Se n’è andato l’anno scorso in luglio, ci teneva tanto a conoscere mio figlio. Ho fatto in tempo a fargli vedere una foto».

Dalla “cima” del vigneto, si vede il mare, le pietre del palmento dei Seicento, la corona di crateri spenti, a destra monte Gorna, a sinistra monte Ilice, gli alberi da frutto in fiore e la terra nera sotto i piedi. Un posto da momenti perfetti. «Un momento perfetto? Sì, c’è stato, era una mattina presto. Ero ancora incinta. Ho messo la mano sulla pancia ero qui alle 6 del mattino, ho visto un’alba stupenda, si vedeva il mare, il cielo terso, mio marito, mio figlio, il vigneto che stava esplodendo di gioia, mi sono fermata ed ho detto… “però”». Era l’ottobre del 2017. Da allora la vita di Sonia è scandita dagli aerei e dagli appuntamenti nelle più prestigiose fiere internazionali. I suoi vini da “grappoli felici” sono venduti in di tutto il mondo, e vengono stappati soprattutto sulle tavole dei ristoranti stellati d’oltreoceano, attualmente il mercato principale. Sia il bianco, Grecanico Dorato in purezza coltivato in contrada Nave, sia l’Etna rosso proveniente da Monte Ilice. Complessivamente 7.000 bottiglie (di cui un migliaio diventano bollicine, un metodo classico prodotto in versione limitata, ma solo se l’annata è buona) e che solo pochi fortunati conoscono, i più all’estero.

«La gente impazzisce per il fatto che siamo su un vulcano, però ancora la nostra identità non è così chiara – sostiene Sonia – dobbiamo lavorare insieme per promuovere questa terra, questo vulcano, le stupide competitività non servono a niente, in questo dovremmo imparare dai vigneron francesi, loro sì che sono un tutt’uno nell’opera di valorizzazione del territorio. Il problema è che non tutti vedono il passato come fonte d’ispirazione, ma come qualcosa di cui ti devi liberare per seguire l’innovazione. Invece, secondo me, non sono due mondi inconciliabili. Basta tornare a fare il vino come lo facevano i contadini 100-200 anni fa, è inutile mettere nel terreno polveri magiche o fare “trattamenti”, per ottenere cosa? È la semplicità quella che premia sempre».

Twitter: @carmengreco612

moderna.A destra la piccola cantina in cui vengono affinati i vini di SantaMariaLaNave. Sopra, il bianco Millesulmare premiato da Decanter per l’annata 2016 tra i 50 vini al mondo “Most Exiting” (Foto Carmen Greco)COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA