Li ha pensati per la prima volta da militare, aveva ventitré anni. Cominciò a buttare giù una storia scrivendo a penna su un quadernone. Poi li mise in un angolo. Ma loro, “I fratelli Corsaro”, un bel giorno si sono ripresentati: “Ora vogliamo vivere”.
Già volto del Tgr Sicilia, Salvo Toscano esordisce con i gialli nel 2005 portando avanti la fortunata serie che, dal passaparola dei lettori, è arrivata all’adattamento televisivo.
Sono passati davanti agli occhi tutti questi anni, i sogni, le gioie, il lavoro, le notti in bianco. In scena i suoi pensieri, le sue parole. Che effetto le ha fatto?
«Davvero molto emozionante. È stato come se si fosse chiuso un cerchio, aperto quand’ero ragazzo. Il primo romanzo è uscito nel 2005 ma l’avevo scritto anni prima. Mi è sembrato di rivedere il film dell’ultimo quarto di secolo della mia vita, con tutto quello che c’è stato in mezzo: tante gioie, alcuni dispiaceri, qualche persona cara che non c’è più».
Fabrizio e Roberto Corsaro non dicono “minghia” nello slang cinematografico e non sono dei cliché. Attraverso i due protagonisti, dunque, il racconto di una terra che non fosse quella del luogo comune.
«Il mio obiettivo è stato quello di dar voce alla città in cui sono nato e cresciuto, e dove ho sempre vissuto. Perché non la ritrovavo molto spesso nella narrazione, soprattutto in quella mainstream, sul piccolo e sul grande schermo. Volevo raccontare uno spaccato della Palermo, un tempo detta “borghese”, delle persone normali, che la mattina si alzano e vanno a lavorare, che studiano, sognano, vivono».
Un bagaglio di normalità di cui la Sicilia dovrebbe riappropriarsi.
«Per tanti anni, quando avevamo i morti ammazzati per strada, non è che si potesse raccontare di molto altro. Certo, non abbiamo risolto i nostri problemi – perché li abbiamo ancora – ma credo sia giunto il momento di mostrare anche le altre facce della Sicilia».
A loro modo, i personaggi interpretati da Beppe Fiorello e Paolo Briguglia sono paladini del quotidiano. Chi è un eroe per lei?
«Ho conosciuto un eroe della mia città, una persona in carne e ossa. È Biagio Conte, un uomo che ha dedicato la sua vita ai reietti, a quelli che nessuno vuole guardare. Credo che i grandi atti di eroismo siano quelli legati al dono, e mi sento in debito verso di lui. Come dovrebbe sentirsi ogni palermitano».
Non è mai un amore facile, quello per la nostra terra.
«Il rapporto della Sicilia con i siciliani è stato descritto molto bene da Sciascia, quando disse di non essere mai riuscito ad amarla senza una punta di risentimento. Ecco, io mi riconosco perfettamente in questa definizione. Una madre matrigna che suscita quasi sempre dei sentimenti di sofferenza, di rabbia, di sconforto, intrecciati però a quell’amore che, ciononostante, continua a legarci indissolubilmente alla nostra terra».
Il Venerdì di Repubblica nel 2017, stilando la mappa del giallo italiano, lo ha affiancato ad Andrea Camilleri. In genere, questi paragoni mettono a disagio.
«Ritrovarmi in quella mappa, mi stupì e mi fece enormemente piacere. Per il resto, non farei paragoni, perché Andrea Camilleri è stato una figura unica nel panorama della cultura popolare di questo Paese».
Ha avuto un impatto che lo rende un fenomeno irripetibile. Cosa le ha lasciato?
«Sono un lettore di Andrea Camilleri della prima ora. Ricordo che andai a vedere una sua presentazione a Palermo: eravamo le persone che, più o meno, potrebbero esserci oggi a una mia presentazione. Un buon numero, certo, ma niente di lontanamente paragonabile a quelli che saremmo stati tre anni dopo, quando poi ci fu l’esplosione della fiction “Il commissario Montalbano”. Lì non ci si sarebbe potuti avvicinare. Invece, in quell’occasione, mi avvicinai per parlare con lui – avrò avuto ventidue, ventitré anni – e lui si fermò a chiacchierare con me dei suoi libri. Lo fece con una umiltà, una naturalezza, una generosità che mi colpirono profondamente. Ogni tanto ci penso, quando si avvicinano i miei lettori, oppure mi scrivono… e mi dico: “È stato bellissimo essere trattato in quel modo da un autore che amavo. Anch’io devo fare lo stesso”».
Intanto continuano le presentazioni de “L’ultimo presagio”, la nuova indagine dei fratelli Corsaro. Anche a Roma.
«Talvolta capita di varcare lo Stretto. Con il mio lavoro, quello del giornalista, non accade spesso di viaggiare per fare le presentazioni. Ma il 20 ottobre andrò al “Neroma noir festival”, dove i miei lettori del continente avranno l’occasione di venirmi a trovare».
Come per una rockstar, l’aspetto più entusiasmante dello scrivere libri è proprio il contatto umano con le persone che ti leggono.
«È un privilegio unico, un incontro intimo. Si scrive per entrare nella vita delle persone e, allo stesso tempo, attraverso quelle pagine, si apre una breccia nella creatività dell’autore».
Si sente un uomo di successo?
«Ho avuto la fortuna di raggiungere più persone di quelle che avrei mai immaginato. Ma il successo personale va parametrato su altro: essere padre di due figli, tenermi vicini gli amici di una vita e, da quasi trent’anni, avere accanto a me la donna che amo».
Oggi l’espressione più comune è “sharing”, in tutti gli ambiti. Qual è il suo pensiero al riguardo?
«Sono un “animale sociale”, che ama la compagnia e la condivisione, con una visione comunitaria della società. Tuttavia ritengo che oggi, di “sharing”, se ne faccia fin troppo. Credo che ci sia un eccessivo sacrificio della privacy e dell’intimità. Alcune sfere private, più opportunamente, sarebbe meglio tenerle per sé».
Cosa le piacerebbe riuscire a condividere con le nuove generazioni?
«Da sempre ho un cruccio: parlare di argomenti che suscitano scarso interesse. Torno spesso, ad esempio, sui diritti dei reclusi, dei detenuti. Perché è su quello che si misura la civiltà di un popolo. Ecco, mi sento gratificato quando riesco ad accendere una fiammella, un interesse nelle persone per cose alle quali non avrebbero mai pensato».
Qual è lo stato di salute del mondo dell’informazione in Italia?
«Non gode di buona salute. C’è stata poca capacità, nel giornalismo, di capire per tempo i fenomeni che hanno trasformato questa professione. L’avvento di Internet e dei social network sono stati compresi con un po’ di ritardo e, invece di essere governati, hanno travolto il mondo dell’informazione. Il momento è delicato. Se il giornalismo sta male, anche la democrazia sta male. Ed è un problema che dovrebbe impensierire tutti».