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Ruggero Moncada Paternò Castello, il signore di Palazzo Biscari: «Parliamo tanto di turismo ma siamo indietro, non si può trascurare così Catania»

Intervista con il Gattopardo catanese: l'educazione, le vacanze da ragazzino a Forte dei Marmi, la fuga d'amore, l'esistenza sotto un vulcano dall'Etna a Stromboli

Di Ombretta Grasso |

Sotto un vulcano, sempre. Con lo sguardo sull’Etna o all’ombra dello Stromboli, immerso in quel flusso di energia. Ruggero Moncada Paternò Castello, gattopardo ironico e racé, è il signore di Palazzo Biscari, un magnifico frammento della storia universale della Sicilia. Una favolosa dimora aristocratica che conta 600 stanze. Troppe? Forse, ma «una casa di cui si conoscono tutte le stanze non è degna di essere abitata» (“Il Gattopardo”).

«Provengo da una famiglia con delle tradizioni, ma sane. Ho avuto un’educazione severa, rigida. Da bambino ero schifiltoso con il cibo e ho preso tante di quelle botte… Mia madre non cucinava “per” qualcuno ma “contro”: il sale lo metteva il lunedì ed era a posto per la settimana! Quando nasci in una famiglia con dei valori, a vent’anni sei un po’ rigidino però ti alzi in piedi quando entra una signora, apri lo sportello, baci la mano, hai delle regole. A volte inutili, altre volte fanno la differenza. Piaci moltissimo a mamme e nonne, alle ragazze no. Sei un “citrolo” di 14-15 anni, e loro preferiscono quelli malandrini, non i damerini. Poi, crescendo, vieni apprezzato. Sai dire bene le parolacce… puoi dire cose politicamente scorrette… E a me diverte, ma spero con garbo e autoironia. Fa parte dal modo di essere che la gente si aspetta, il turista che visita Palazzo Biscari cerca un principe, un Tancredi».

Una vita di privilegi?

«Mia madre era una borghese, c’è un misto di valori nell’educazione. Poi, ho avuto un maestro di sinistra che mi ha fatto capire che ero particolarmente fortunato. E che non tutti lo erano. Mi è entrato un sentimento di partecipazione, di condivisione, e anche un prendere in giro queste famiglie che hanno i loro difetti. Tomasi di Lampedusa li racconta benissimo perché li conosce, De Roberto, borghese, non salva nulla dell’aristocrazia».

Nei saloni di Palazzo Biscari hanno girato alcune scene della serie tv Netflix sul Gattopardo.

«Una specie di “Downton Abbey” siciliana. Nei nostri saloni rococò hanno girato il ballo dell’Unità d’Italia, non quello celebre del fidanzamento di Angelica. Può essere un ulteriore lancio, se gli aeroporti saranno in funzione, se la città sarà pulita. Parliamo tanto di turismo ma siamo indietro, non si può trascurare così Catania, non si può trascurare la Sicilia».

Tanti gli ospiti famosi del Palazzo.

«Dalla Regina madre d’Inghilterra a Mick Jagger. Con lui è stato fantastico perché gli ho potuto raccontare un episodio di vent’anni fa quando Marta Marzotto venne per Sant’Agata e pubblicò su “Chi” una mia foto. Nelle didascalie c’era Bianca Jagger a New York e, nell’altra foto, Ruggero Moncada a Catania per Sant’Agata. Gli ho detto: sono stato con tua moglie Bianca: lei sopra e io sotto… Lui mi ha guardato un po’ storto».

Vive nella grande bellezza.

«Sono nato e cresciuto qui. Ma la bellezza si può trovare anche in una conchiglia».

Dove trascorreva le vacanze?

«Al Forte, in quello che ora è il regno della Santanchè. Mia madre era lombardo veneta, il nonno un famosissimo dermatologo. Dal 1955 al 1975 ho passato a Forte dei Marmi tutte le mie estati. Vacanze da “Sapore di mare”, un’atmosfera abbastanza simile ai film, con quella sfilza di personaggi. Io ero il meridionale ed anche il nobile in mezzo ai ricconi milanesi con villona e motocicletta».

C’erano feste, balli, occasioni mondane?

«C’era già un gruppo più intellettuale, di nicchia. Frequentavamo Carlo Carrà, suo figlio, i nipoti. Fiammetta Carrà era una cara amica. Passavano la Bellonci, Giuseppe Berto, scrittori premi Strega e Campiello. L’ambiente in cui noi ragazzini vivevamo».

Com’erano le giornate?

«Si faceva vita di pineta, si andava al cinema. Si viveva del gelato, delle passeggiate. Il nonno piazzava moglie, due figlie, i generi, cinque nipoti, i camerieri, un’infermiera per la nonna diabetica, una cuoca, insomma un popolo, in questa casa al mare. Noi ragazzi stavamo nelle stanze con i letti a castello. I due più grandi avevano una vita notturna, andavano alle Capannine. Io non l’ho mai fatta. Ero un ragazzino magretto, un barone rampante sugli alberi. A 20 anni, sono andato all’università a Padova perché mi piaceva una ragazza che è diventata mia moglie, Nicoletta. Siamo insieme da 48 anni».

Vacanze in Sicilia?

«Da bambino ci mettevano vicino all’hotel Airone. La casa veniva affittata con i Castorina e i Serrano, quelli dei cinema. Stavamo lì con le bambinaie e ogni tanto ci venivano a trovare. Io ne avevo una bellissima, Teresa. Le persone di servizio che lavoravano per mia madre si sposavano entro l’anno dal loro arrivo. E bei matrimoni. C’era un’amica zitella che ci chiedeva ridendo di passare da noi un paio di settimane. Più grandi, finite le scuole si andava al mare all’Excelsior, poi ai Ciclopi, quindi si partiva per la villeggiatura al Forte. Vacanze infinite».

E dopo i 20 anni?

«Lunghi e meravigliosi viaggi con mia moglie. Nel ’76 andammo in auto in Spagna per un mese. Poi, un viaggio indimenticabile in Grecia, nel 1978-79. Il mio migliore amico, Mario Castorina, arrivò con un pezzo per la barca di Pino Sivieri, l’ingegnere che aveva costruito l’Atlantis Bay e il Palacongressi a Taormina. Giravamo il Peloponneso su questa barca d’altri tempi, vela latina a penna, per polena una sirena azzurra, usata per il contrabbando del sale. A bordo Steve Caramazza, Maria Francesca Natoli, Elena Cutrona. Non andavo più al Forte, mia madre era divertentissima, ma possessiva».

E il papà Vincenzo?

«Fantastico, un uomo di grande rettitudine. Ha preservato tutto questo. Era bravissimo in campagna, un imprenditore adorato da tutti. Mia mamma, Annalisa Flarer, era una scrittrice, nella cinquina del Premio Strega con “L’anno venturo al di là del mare”. Ha scritto un libro sui San Giuliano. Una grande famiglia».

Adesso dove trascorre l’estate?

«Le mie vacanze erano le villeggiature con i nonni, poi più niente. La casa al Forte è diventata quella dei ricordi delle mie figlie, che la amano tantissimo. Da sette anni abbiamo casa a Stromboli. C’è un gruppo letterario fantastico, Paola Mastrocola, Lidia Ravera, Daria Bignardi, tanti attori e alcuni amici napoletani. Io sono molto casalingo».

Cos’è Stromboli per lei?«Io ho un senso del dovere che mi massacra. Mi carico sulle spalle il mondo ogni mattina, penso che se non ci fossi io crollerebbe. Stromboli riesce a rilassarmi, mi permette di vuotare il cervello dalle preoccupazioni, ma anche lì non sto fermo: cucino, pulisco la spiaggia, costruisco lampade con pietre e legni. L’isola ha un grande fascino. E’ un buon modo vivere e morire sotto un vulcano».

(Foto Renato Zacchia)COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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