Catania – «Ho iniziato a pescare presto, appena finiva la scuola e poi, mi sono imbarcato a tredici anni. Non ne avevo quattordici che ebbi il comando del Santo Padre, una barca in legno di sedici metri. Mio cugino doveva salpare con la barca più grande, il “Nino Testa” e mi chiese se me la sentissi di prendere il suo posto. Dissi di sì. Può immaginare le facce dei marinai quando videro salire a bordo un ragazzino… Mi appiopparono il soprannome di picciriddu. Comandante picciriddu». Quel comandante “picciriddu” era Pippo Testa, in questo 2019 alle sue nozze d’oro da pescatore.
Cinquant’anni di “sposalizio” con il mare, che effetto le fa?
«Mi sento un po’ meno giovane, ma al tempo stesso più giovane di quando ho iniziato. È la voglia di fare a spronarti. Per me non è solo un mestiere è anche e soprattutto un modo di vivere la famiglia. Ho sempre cercato, nel mio piccolo, di migliorare e qualche soddisfazione posso dire di averla ottenuta».
Com’era la vita a bordo quando ha iniziato?
«Dura, ma mio nonno come mio padre riuscivano a far campare la famiglia onestamente, laboriosamente. Naturalmente una pesca diversa, fatta con barche di quindici-sedici metri, una pesca locale e giornaliera. Si rientrava al mattino. Solo dopo gli anni Ottanta, ci siamo spinti verso Lampedusa, la Calabria, la Liguria, il golfo del Leone in Francia».
Oggi secondo lei i pescatori hanno acquisito consapevolezza ambientale o c’é ancora molta strada da fare?
«Da almeno dieci anni, la situazione è migliorata. Ad esempio, non ho più visto scie di petrolio in mare. Per quanto ci riguarda, noi non gettiamo in mare neanche una cicca di sigaretta. Quest’anno, avevamo ancora dei bicchieri di plastica per il caffè, ma dall’anno prossimo neanche quelli. Tutti i rifiuti sono stoccati, compreso l’umido e riportati a terra, mentre il gasolio refluo finisce in un’apposita vasca».
L’Ue come ha influito sul mestiere dei pescatori?
«Spesso, le decisioni europee che riguardano la pesca, sono fatte più su misura dei Paesi che si affacciano sul Mare del Nord. Le leggi servono e penso che sia un bene la norma che ha messo un limite alla taglia delle reti sia nella pesca al cianciolo sia in quella a strascico. Poi, c’è il lavoro dell’Iccat (The International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna ndr) e degli organi istituzionali che, con l’introduzione delle quote ha salvato dall’estinzione, nel giro di poco tempo, il tonno rosso. Dovremmo riflettere, prima o poi, anche su come salvaguardare il pesce azzurro e il gambero, offrendo soluzioni reali e incentivi al settore».
L’accostamento con i “cugini” Malavoglia le piace? In fondo quelli furono dei pescatori ai quali il passo in avanti non era consentito dal livello sociale (secondo Verga). A voi è andata molto meglio, avete saputo innovarvi…
«Un tempo, le marinerie erano molte di più. C’erano comunità di pescatori importanti a Catania Civita, a San Giovanni Li Cuti, Aci Trezza, Augusta, Brucoli… e molti erano tra loro cugini. Qualcuno ci ha creduto di più e ha avuto anche la fortuna che i figli proseguissero il mestiere dei padri. Io mi sono ritrovato a cavallo tra l’esperienza e la tecnologia e oggi avrei difficoltà a continuare da solo senza l’aiuto delle nuove generazioni che sono figlie dell’innovazione. Ai miei tempi, per diventare capopesca si iniziava dalla pulizia della barca. Oggi, la strumentazione a disposizione aiuta più rapidamente i volenterosi».
Si sentiva “destinato” a questo mestiere?
«Si figuri, stavo già male sulla barca in porto, se non avessi avuto una vera passione avrei mollato. Mi piaceva andare sulla lampara. Avevo tanta voglia di fare e mio padre mi ha assecondato. Una volta, però, ho insistito per calare la rete, anche se avevamo preso già abbastanza pesce. Morale della favola, sono riuscito a fare un sacco di danni alla rete. Si impara anche dai propri errori».
Secondo le previsioni, entro il 2050 in mare ci sarà più plastica che pesce…
«Non sono così pessimista. I miei antenati, uscivamo in mare e potevano trovare il pesce dal volo degli uccelli o da una macchia più scura in acqua. Oggi, abbiamo dei mezzi più sofisticati per cercarlo e trovarlo. Credo che il danno sia stato già fatto e ora si cerca di cambiare comportamenti. Il futuro del mare dipenderà da due fattori imprescindibili: maggior rispetto dell’ambiente e prezzi più giusti per il pescato».
In quanto marittimi si rimane sempre ormeggiati alle cose. Lei a cosa è rimasto “ormeggiato”?
«Mi sento legato al mio ambiente, a tutto ciò che mi circonda. Mi basta guardare le reti, salire a bordo, il mare. La natura è il nostro lavoro, a volte benigna, a volte no. Non posso dire che sia una lotta con la natura, perché è chiaro chi vincerebbe. È, piuttosto, un duello, una danza, guardandosi negli occhi senza spavalderie. Un legame così è indistruttibile».
Se incontrasse un gommone con migranti in mare li soccorrerebbe?
«Ci è capitato due volte, una volta abbiamo dato assistenza con acqua e viveri, seguendo gli ordini da terra. Un’altra, i migranti, una ventina, quando hanno visto le reti di circuizione sono saltati in mare e ci sono saliti sopra. In quel caso, è stato il rimorchiatore ad occuparsene e a portarli a Malta. Sono situazioni molto difficili, perché un comandante ha come prima responsabilità quella del suo equipaggio e della sua nave. Naturalmente, il discorso è diverso, se incontri qualcuno con il mare grosso, in un immediato pericolo di vita».
Ognina e i Testa, Testa e Ognina. Cosa rappresenta questo quartiere per lei?
«Le radici, il posto dove tutto è iniziato e che resta nel cuore».
La battuta di pesca che non dimenticherà mai?
«Lei ci crede, se, a rischio di sembrare presuntuoso, le rispondo che le ricordo tutte? Ogni battuta, bella o meno bella, ha la sua storia, è per così dire indimenticabile. Qualcuna può anche conquistare un posto d’onore tra i ricordi, come quella di quest’anno in cui siamo risusciti a catturare in un’unica calata un grosso branco di tonni rossi».
Ad Ognina c’é già una via Testa, quindi come le piacerebbe essere ricordato tra 100 anni?
«Io, sinceramente, vorrei essere ricordato soprattutto dai miei figli e dai miei nipoti come un buon genitore, un capo di famiglia. Questo mi interessa. Un uomo si giudica dalle sue azioni. Se su dieci, sei riuscito a farne bene sei o sette, è un buon risultato».
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