Viagrande (Catania) – Chi varca la soglia di casa sua per una lezione di cucina non sa che verrà “contaminato” (e di questi tempi è un aggettivo improponibile), dalla storia, dalla cultura, dalle relazioni che si creano attorno al cibo. È questa la più grande “lezione” di Monica Consoli, oltre le cooking class in cui “mettere le mani”, oltre una forchettata di pasta ‘ncasciata o un cucchiaino di gelo di limone. Quello che lei comunica è più il senso di una “contaminazione accogliente” con la quale spiazza americani, canadesi e australiani, i più assidui frequentatori della casa di Viagrande dove è nato tutto con mamma Eleonora. Monica i turisti li porta anche in pescheria a fare la spesa, a far vedere loro le verdure di campagna e il colore viola del cavolfiore. Oggi lo chiamano “turismo esperenziale”, ma forse è solo un modo per superare la banalità di una comunicazione del cibo fatta di blogger, chef, “laboratori del gusto”, e maestri di “innovation food” che impastano hashtag sui canali social, più che la farina per i “maccarruna”.
«Quando vado in pescheria porto sempre i gruppi alla bottega delle spezie in via Gisira, ma le bancarelle sono sempre di meno. La pescheria sta diventando un luogo per gastrofighetti. Non ho niente contro chi apre un ristorante, ma togliendo le botteghe, muore il mercato e muoiono le storie delle persone. Mi meraviglia che, su questo luogo che è un tesoro per tutti, non ci sia un progetto. Quale Sicilia vogliamo raccontare se non questa?, Quella con le magliette con la faccia del Padrino?».
Come viene raccontata oggi la cucina siciliana?
«Un po’ superficialmente, andrebbe raccontata in maniera un po’ più articolata. Quello che rende speciale la cucina siciliana è il fatto che sia stata contaminata nel passato e che noi siamo stati permeabili a queste contaminazioni, felici, alle fine, di misurarci con il nuovo, con l’estraneo, con l’ingrediente sconosciuto, prendendolo e facendogli posto sulle nostre tavole. Questo ci ha reso un unicum in Italia. In Sicilia l’ispirazione è continua, quando vieni qui è come essere sottoposti ad un brainstorming dal punto di vista gastronomico. Per questo penso che recuperare la nostra “permeabilità”, la nostra curiosità, sia molto importante. Certo, sarebbe molto più semplice spiegare quattro ricette e via… Io, invece, studio continuamente, leggo tantissimo, sempre provo, sempre sbaglio e sempre ricomincio, misuro anche l’acqua perché sono stata una vittima del “ti regoli ad occhio”… e mi faceva impazzire questa cosa (ride). Ma mi è costato fatica, mi sono messa in gioco».
Misurarci con ciò che ci è sconosciuto oggi che si tende a chiudergli la porta in faccia è una bella sfida…
«Indubbiamente è anche un discorso “politico” che si porta dietro la paura dell’altro. Ricordo il primo ristorante cinese che aprì a Catania in via S. Euplio, ebbe un grande successo, i catanesi erano impazziti. Oggi non ci andremmo più e non tanto per il coronavirus, è da un pezzo che la diffidenza verso gli altri ha invaso il nostro quotidiano».
La cosa che sorprende di più i turisti stranieri che arrivano qui?
«Si commuovono perché entrano dentro una vera casa per lavorare in una vera cucina. Si aspettano un ristorante e, invece, ci sono io, i miei mobili, le fotografie della mia famiglia, la mia porcellana, le mie posate. Poi si sorprendono del fatto che utilizziamo la farina di Maiorca, oppure di Russello. Quando racconto loro che il grano che arriva dall’Est ha il glifosato, che devono abbandonare la Manitoba, sono molto colpiti. Capiscono, forse per la prima volta, che possono fare delle scelte, come comprare la vedura nei farmers market e non al supermercato impacchettata nella plastica».
E gli italiani?
«Sono più accorti, ma si fermano al “senza”: senza burro, senza zucchero, senza glutine. A loro sembra che sia un valore “se non c’è vuol dire che è più sano”, ma non è così».
Esiste una nuova cucina siciliana?
«È difficile in questo momento storico usare il passato come fondamenta sulle quali costruire il nuovo. Il nuovo che vedo non mi fa impazzire, c’è una tendenza alla decostruzione, a ridurre ai minimi termini, che mi sembra più una forzatura che non un tentativo di sfrondare il superfluo. Se in una ricetta come la pasta alla Norma separiamo gli ingredienti, diventa un’altra cosa, se poi ci mettiamo la melanzana arrostita invece che quella fritta, è un’altra cosa ancora. Questo distruggere sistematicamente tutto, posto che oggi il gusto è cambiato e che 400 grammi di zucchero in un chilo di ricotta, come si legge nelle antiche ricette, non li mette più nessuno, non serve. Un lavoro di ripulitura e scrematura al passo con i tempi va fatto in maniera intelligente. Mi è capitato di recente di entrare in contatto con alcuni giovani chef e mi sono sentita quasi umiliata nel vederli muovere in cucina con una grande supponenza per annunciare “Burro nella mia cucina non ne uso!”, Poche idee e rigidissimi, ma perché?».
Cosa rimane ai turisti dopo una cooking class?
«La relazione, le storie connesse alle persone attraverso il cibo. Mia nonna Maria era una donna molto intelligente, veniva da una famiglia benestante, aveva studiato, conosceva il francese, leggeva moltissimo. Per motivi familiari seguì il marito in Africa e lì rimase a lungo. Lì imparò a fare il cous cous che divenne un piatto di casa. Se penso a questa giovane donnache proveniva dal mondo europeo catapultata nella realtà africana… Eppure dalla sua bocca non è mai uscita una parola di odio o di disprezzo nei confronti del popolo africano sorpresa com’era dalla varietà che lì aveva trovato. È questo che mi piace della cucina: raccontare storie del mondo attraverso le storie delle persone».
Un consiglio per chi vuole avvicinarsi a questo mondo?
«Fare un passo indietro, fermarsi un attimo, toccare gli ingredienti, concedersi il piacere del tatto, dell’osservazione, dei profumi, e darsi tempo. Stare in cucina non dev’essere una croce, ma un momento creativo, costruttivo, importante sul piano della salute, delle relazioni, della cultura… In questo mondo ci devi entrare con calma senza ansie da prestazione alla MasterChef».
Un piatto simbolo?
«La pasta con le sarde a mare, c’è dentro tutto: il finocchietto, la pasta fatta a mano, lo zafferano, l’uvetta, l’acciuga salata (poca), ‘u strattu di pomodoro, il pangrattato al posto del formaggio. C’è la Sicilia, ci siamo noi, ci sono gli arabi, non ci sono le sarde, ci ricorda quanto eravamo poveri».
E il piatto del cuore?
«Il galletto al pomodoro che faceva mia madre e, prima di lei, mia nonna. Ho provato a farlo 100 volte e mia figlia che ha assaggiato quello di mia madre, ogni volta che glielo preparo mi dice “Niente, manco questa volta ci sei riuscita…”».
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