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Mirto, con Luisa il suino dei Nebrodi al top a livello mondiale come “carne salutare”
Mirto (Messina) – La sua è una storia, come racconta lei stessa, di «un grande riscatto di vita perché, sesta figlia di una famiglia umile di Castell’Umberto, nel Messinese, mi sono dovuta fermare alla terza media perché non c’erano i soldi per mandarmi a scuola. Oggi tuttavia sono riuscita a creare qualcosa, non solo per la mia azienda e per me, ma soprattutto per il territorio». La storia è quella della 43enne Luisa Ingroggio Agostino che, arrivata a 16 anni a Mirto come lavorante nell’azienda di famiglia di quello che poi è diventato suo marito Sebastiano (e con cui si è sposata a 20 anni), ha contribuito in maniera fondamentale alla crescita dell’impresa. Azienda – che si tramanda da generazioni di padre in figlio – che all’epoca era solo allevamento di bovini, agnelli, capretti e una macelleria per la vendita dei prodotti aziendali (carni e formaggi).
«La svolta – racconta Luisa – è arrivata nel 1996 quando la Regione ci propose di lavorare su un progetto per la valorizzazione della razza del suino nero dei Nebrodi, che era in via di estinzione. Siamo stati scelti perché avevamo qualche esemplare di razza autoctona e perché siamo macellai. Noi abbiamo accettato subito, visto che ci tenevamo alla valorizzazione di questa razza autoctona, in via di estinzione perché ha una crescita molto lenta e ha un apporto di massa grassa sul muscolo. Si pensi che da un animale che alleviamo non meno di 20 mesi, ricaviamo una pezzatura tra i 100 e i 110 chili. E questo poi ci dà il 70-80% di massa grassa e il 30% di muscolo». Di contro, però, il suino nero nella massa grassa «ha una componente importante di acidi grassi polinsaturi (45-48% di acido oleico, quindi un grasso molto salutare che si avvicina all’olio d’oliva) e le carni hanno una buona ritenzione idrica per cui trattengono ferro, vitamine, sali minerali, zuccheri e quant’altro. Quindi, è una carne salutare». Il progetto, con i vari step di allevamento e macellazione, durò 10 anni: «Una volta assestato il migliore modo di allevarli, siamo passati alla fase della lavorazione dei salumi: dapprima con il salame e la salsiccia, seguendo le nostre tradizioni territoriali (tagliata al ceppo, non utilizzando nitriti e nitrati, usando budello naturale). Poi, però, ci siamo resi conto che era un peccato farne solo salame e salsiccia e la Regione Sicilia ci ha affiancati all’Università per le conserve alimentari di Parma: e con loro abbiamo iniziato la lavorazione per il prosciutto». Seguono anni di studio sui prosciutti (peraltro, nel 2000, il suino nero dei Nebrodi diventa presidio Slow Food. L’azienda è presidio anche per la Provola dei Nebrodi) per i quali la Sicilia non ha tradizione. «Una cosa bellissima che capitò nel momento del panel test sui prosciutti fu che noi, non essendo prosciuttai, lavoravamo con quello che offriva il territorio. A Castell’Umberto abbiamo utilizzato delle cantine naturali (oggi autorizzate con numero Ce per la stagionatura dei prosciutti) e, dopo 18 mesi di lavoro, abbiamo capito che il prosciutto a Parma tecnicamente era fatto benissimo mentre il nostro no, però i profumi che avevano i nostri prodotti (frutta secca, fungo porcino, mandorlato, rose), acquisiti nelle cantine durante i 18 mesi di stagionatura, non li avevano quelli di Parma stagionati in celle termocontrollate». Quindi prodotti straordinari, tanto che 4-5 anni fa sono stati premiati dall’università La Sapienza di Roma come migliore prosciutto salutare al mondo. «In seguito, essendo celiaca, abbiamo anche studiato un amalgama per l’esterno del prosciutto (dove è privo di grasso e cotenna, si stucca con farina e strutto di maiale), utilizzando lo strutto e la farina di riso, dando così anche questo valore aggiunto gluten free al prodotto». Un prodotto, però, oltre che salutare, anche molto gustoso, tanto da essere stato inserito, con capocollo, salame e pancetta aziendali, nel 2014 nella Guida Grandi salumi d’Italia del Gambero Rosso. E premiato, ancora prima, nel 2011, come Best in Sicily. E i risultati si vedono: tra i clienti (in Italia e all’estero), La Paisanella vanta la catena dell’Holiday Inn e chef stellati come Ciccio Sultano e Pino Cuttaia.
La scelta vincente, quindi, è stata puntare sull’alta qualità: «Faccio un quantitativo limitato, visto che siamo molto rigidi sulla stagionatura del prodotto». E non solo: «I nostri mille capi non bastano per la filiera settimanale, quindi nell’arco degli anni abbiamo selezionato una decina di allevatori che, con il nostro disciplinare, allevano il maialino nero dei Nebrodi e poi lo conferiscono al nostro salumificio. E questa è una bella sinergia tra gli allevatori che ha creato una bella economia sul territorio».
Azienda che occupa una ventina di persone ed è ramificata in vari settori: allevamento di vacche e pecore di razza indigena, suino nero dei Nebrodi, un centinaio di capre e poi la macelleria e la salumeria, il salumificio e il caseificio. «Ogni settore viene seguito da un capo famiglia: del salumificio si occupa mia cognata Pina, della macelleria e delle spedizioni mi occupo io, al caseificio ci sono i miei suoceri Vincenzo e Graziella, di 83 e 80 anni, che sono i supervisori dell’azienda. Per me è poi motivo di orgoglio meraviglioso il fatto che da tre anni in azienda sono entrati mio figlio Vincenzo, di 22 anni, che si occupa del salumificio, e mia nipote (figlia di Pina), che collabora in macelleria. È una tradizione di famiglia che, grazie ai nuovi apporti, continuerà. Mia figlia Maria Grazia, 19 anni, invece, studia all’università Economia e management».
Le difficoltà maggiori sono quelle logistiche: perché se da una parte il territorio montuoso e boschivo è l’habitat naturale del maialino nero dei Nebrodi, dall’altro è difficile fare spedizioni da Mirto. «Il corriere refrigerato non viene solo per me. Allora negli anni ho creato un box di polistirolo più spesso, con ghiaccio all’interno e ho trovato un partner di spedizioni collaborativo: solo così negli anni siamo riusciti a fare le consegne al Nord garantendo la filiera del freddo». Di contro, la maggiore soddisfazione è vedere «tutti i colleghi che 23 anni fa, quando siamo partiti controcorrente con il progetto della Regione, ci ridevano dietro, oggi ci invidiano». Un settore che potrebbe offrire tanto pure ai giovani, anche se «non vedi una liquidità di soldi subito, ma solo dopo anni di sacrifici e costanza. Il giovane allora scappa, perché c’è tanto sacrificio, lavoro e un rendimento economico molto lontano». Eppure, per Luisa «il marchio Sicilia tira moltissimo: qui abbiamo un paniere enogastronomico che ci invidiano tutti». Peccato che «all’Isola manchi lo spirito di sacrificio, della fatica, del lavoro». Ai giovani consiglia allora di «restare nel proprio territorio e fare tesoro di quello che ci offre: il nostro sarà anche un lavoro usurante, ma dà tante soddisfazioni. Con il nostro lavoro non finisci mai di conoscere persone e culture diverse, di imparare. I giovani devono restare nel proprio territorio ma allargarsi la mente andando a vedere come operano le altre aziende. Io sono l’esempio che anche solo con la terza media si può fare tanto, l’importante è che lo devi sentire, volere, ti deve appartenere. E a me questo territorio mi appartiene».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA