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Marco Pavone, l’ingegnere etneo premiato da Obama per i robot spaziali
«Sono nato a Torino – racconta -, ma mio padre è catanese e siamo tornati in Sicilia quando ero al liceo. Ho frequentato il Cutelli, poi ho studiato nell’università etnea e contemporaneamente alla Scuola Superiore di Catania». Laureatosi nell’ateneo catanese in ingegneria informatica e nella classe di ingegneria alla Scuola Superiore, Marco Pavone per qualche mese lavora a Milano per la società di consulenza Accenture.
Poi nel 2006 parte per il dottorato di ricerca in ingegneria aerospaziale – «era sempre stato il mio obiettivo», rivela – al Mit di Boston. Conseguito il dottorato di ricerca in ingegneria aerospaziale con una specializzazione in robotica, nel 2010 si trasferisce a Pasadena, in California, per lavorare al centro Nasa Jpl (Nasa Jet Propulsion Laboratory) che si occupa di esplorazione planetaria con i robot.
«I robot che atterrano su Marte o su altri pianeti – spiega Marco Pavone – sono progettati e costruiti in questo centro. Essendo un ingegnere robotico, mi occupavo di rendere questi robot il più possibile autonomi durante le missioni planetarie. Ho lavorato nel contesto dell’esplorazione di asteroidi, comete e di Marte (in particolare alla missione che dovrebbe arrivare sul pianeta rosso nel 2020, occupandomi della selezione del punto di atterraggio per la navicella che trasporta il robot marziano)».
Al di là dell’obiettivo scientifico, che resta quello principale («Sostanzialmente capire come si è formato e come si sta evolvendo il sistema solare e se ci sono possibilità di vita extraterrestre»), la robotica spaziale ha sulla Terra «svariate ricadute di tipo tecnologico. Ad esempio, tecniche d’intelligenza artificiale sviluppate nell’ambito della robotica aerospaziale ora sono applicate nel contesto di auto senza conducente e aerei senza pilota, come pure batterie e pannelli solari che hanno avuto un grande sviluppo in ambito aerospaziale ora trovano applicazione in contesti terrestri».
E se la robotica spaziale ha prevalentemente a che fare con l’esplorazione planetaria, può essere anche utilizzata in orbita attorno alla Terra, ad esempio per riparare satelliti con malfunzionamenti: «Si potrebbero avere “elettricisti robotici” che riparano le anomalie dei satelliti evitando che questi ultimi, molto costosi, vadano perduti». Senza contare poi la costruzione di strutture nello spazio per studiare la Terra, per esempio per la meteorologia o per monitorare lo scioglimento dei ghiacci: «Tutto questo potrebbe essere fatto in maniera molto più economica con robot anziché con astronauti».
Ricerche proseguite anche quando, nel 2012, l’ingegnere Pavone si trasferisce all’università di Stanford, dove attualmente è Assistant Professor e dirige un proprio laboratorio di ricerca – con uno staff di una quindicina di persone – in cui si occupa di sviluppare «tecniche di intelligenza artificiale che permettano ai robot di essere sempre più autonomi, più sicuri, più utili con applicazioni alla robotica spaziale – che è quella per la quale ho ricevuto il premio da Obama – e applicazioni nel contesto di auto senza conducente, che è un settore che sta avendo un fortissimo impulso in tutto il mondo».
Tanto che, secondo il prof. Pavone, entro 5 anni cominceranno a diffondersi i primi modelli commerciali: «Chiaramente – avverte però Pavone – dipende da cosa intendiamo per auto senza conducente. Nel senso che se intendiamo una vettura che possa guidare ovunque e in qualsiasi situazione climatica, quello potrebbe richiedere molto più tempo. Al contrario, auto che devono guidare in contesti urbani, a velocità limitate, magari all’inizio in zone climatiche non estreme sono molto più vicine. E, tra l’altro, più utili per superare problemi come le strade congestionate e l’inquinamento dei centri urbani».
Una carriera folgorante, soprattutto se confrontata con gli standard italiani, quella del prof. Pavone, che non si definisce un cervello in fuga: «Andare all’estero è stata una mia scelta. Sin da ragazzino avevo il pallino dell’esplorazione planetaria e della robotica e il centro migliore che se ne occupa è la Nasa di Pasadena. A 25 anni a Milano avevo un lavoro a tempo indeterminato, quindi non avevo alcuna necessità di cercare lavoro all’estero: sono partito per seguire la mia passione dell’ingegneria aerospaziale».
Con la consapevolezza di dovere molto alla città etnea e in particolare alla Scuola Superiore di Catania: «L’università italiana in generale, secondo me, è di alto livello – sottolinea Pavone -. Per me, in particolare, è stata di fondamentale importanza la Scuola Superiore di Catania, perché mi ha fornito quelle conoscenze aggiuntive che mi hanno reso veramente competitivo a livello mondiale. Non solo: mi ha dato anche l’opportunità di interagire con altri centri di ricerca sia in Italia sia all’estero, tramite borse di studio. In questo sono stato molto fortunato, perché una persona può anche essere molto in gamba, ma se poi magari non è messa in contatto con le giuste opportunità, diventa difficile emergere. La Scuola Superiore di Catania mi ha dato appunto l’opportunità di stabilire contatti con persone con le quali ho collaborato successivamente. Ad esempio, il mio trasferimento negli Usa è sorto quando, parlando con un docente della Scuola Superiore di Catania, manifestai l’interesse di lavorare nel campo dell’ingegneria aerospaziale; è stato questo docente a mettermi in contatto con un suo collega che lavorava negli Usa e che poi è diventato il mio relatore di dottorato al Mit. Se non avessi parlato col professore della Scuola Superiore di Catania e lui non avesse stabilito questo contatto, probabilmente non sarei qui».
Un tributo di riconoscenza che si accompagna al dispiacere di vedere che «il sistema universitario italiano è spesso criticato in maniera eccessiva. È vero che ci sono dei problemi, ma è anche vero che ci sono persone di altissimo valore. Forse è poco noto che l’Italia ha ad esempio una cultura ingegneristica aerospaziale di primissimo livello: è stato uno dei primi Paesi al mondo a lanciare satelliti in orbita, contribuisce in maniera molto rilevante a diverse missioni europee e della Nasa ed io stesso collaboro con diversi professori in Italia e periodicamente ospito studenti italiani in visita nel mio laboratorio: e sono tutti di altissimo livello». Tanto che il prof. Pavone spera che «in futuro la mia esperienza da professore universitario e da collaboratore della Nasa possa essere messa a disposizione dell’Italia».
Non che questo significhi però un rientro nel Belpaese: «Per ora io sono stabilito qui (peraltro sono sposato da luglio con una catanese, anche lei ex studentessa della Scuola Superiore di Catania, che oggi insegna all’università di Berkeley) e non vedo nel mio futuro un rientro in Italia, ma mi farebbe molto piacere mettere a disposizione la mia esperienza tramite collaborazioni più strette oppure come consulente, dando il mio parere su scelte strategiche per lo sviluppo del sistema universitario o della Scuola Superiore di Catania». Con la quale, attraverso la rete di un centinaio di ex studenti «molto attiva», è in contatto molto stretto: «Ci vediamo ogni Natale e facciamo il punto della situazione sia per quanto riguarda le attività dell’associazione, sia per quanto riguarda le attività della Scuola Superiore – vero e proprio faro culturale per Catania e la Sicilia – alla quale cerchiamo di restituire ciò che ci ha dato».
Se, dunque, nell’orizzonte futuro del prof. Pavone non c’è un rientro in Italia, tra i suoi progetti in fieri ci sono quelli «con la Nasa per sviluppare robot per l’esplorazione di asteroidi e comete e per la costruzione di robot da mandare in orbita per aggiustare satelliti con anomalie o malfunzionamenti. Seguo poi con Toyota un progetto di intelligenza artificiale per auto senza conducente. Ci sono poi la didattica e il coordinamento di un gruppo di più di 100 studenti coinvolti in attività aerospaziali pratiche come il lancio di palloni d’alta quota, razzi o micro-satelliti: attività didattica pratica che purtroppo spesso manca nell’università italiana».
Da questo esempio di successo, quali consigli ai giovani? «Quello di fare della propria passione il proprio lavoro. Quando torno in Italia, noto che c’è un clima di pessimismo eccessivo nel mondo universitario: chiaramente il mondo professionale oggi è più difficile di quanto fosse 40 anni fa, però, almeno nel campo dell’ingegneria e della robotica, ci sono tantissime opportunità. Consiglierei quindi di guardarsi attorno, di non essere pessimisti: le opportunità ci sono, bisogna saperle cogliere”.
Fondamentale resta l’esperienza all’estero: «La scelta, tuttavia, è prettamente individuale. Trovo semplicistico quando si dice: sono rimasto in Sicilia, non come quei “traditori” che sono andati all’estero. Oppure viceversa: io sono andato all’estero, non come quei pigroni che sono rimasti in Sicilia. Ogni scelta è individuale e rappresenta un delicato punto di compromesso fra tanti fattori. Detto questo, a prescindere dal fatto che uno voglia andare all’estero per rimanerci o solo per un breve periodo, secondo me è un’esperienza che tutti dovrebbero cercare di fare perché rende le persone più aperte».
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