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Letizia Ferlito, geologa “affetta” da un mal d’Africa che fa tanto bene agli altri
Una scelta fatta con il cuore. «Perché tutte le mattine quando ti svegli, ogni giorno della tua vita, ti senti utile. Comunque vada hai fatto qualcosa di utile per gli altri – racconta – E poi lì ho un ruolo, un compito, una cosa che qui in Sicilia non è stata possibile».
Laurea in Geologia, dottorato in Scienze della terra, un anno di post dottorato negli Usa, a Portland, per diventare al ritorno una ricercatrice precaria. «Appartengo a quella generazione di ricercatori che la Gelmini ha ritenuto inutile per il lavoro all’Università – racconta con amarezza – rientrata dagli Stati Uniti e senza occasioni in Sicilia, ho avuto l’opportunità nel 2005-2006 di andare in Nigeria per una società che realizza infrastrutture. Un Paese ricco ma violentissimo, con grandi disparità sociali: vent’anni di colpi di Stato e lotte per il petrolio hanno creato una popolazione armata, anche un incidente stradale può risolversi con qualcuno che ti punta una pistola».
Poi il passaggio nel mondo della cooperazione, in Sudan, «per un progetto di sviluppo urbanistico finanziato dalla Banca Mondiale negli anni della crisi del Darfur», e l’approdo nel 2009 in Guinea-Bissau – «in un Paese post conflitto dove si viveva con poche ore di energia e acqua » – con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp in inglese) come responsabile del Fondo Gef (Global Environmental Facilities). «Ma è stato il vero riscatto africano, il Paese più in alto nel mio cuore. Un enorme delta di fiumi ramificati, mangrovieti che arrivano al mare. Di fronte c’è il grande arcipelago delle Bijagos, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, culla di biodiversità dove la vita sembra essersi fermata in un altro tempo, ma difficile da raggiungere. È un Paese povero, ma di grande dignità».
Oggi Letizia è in trincea per l’ambiente come assistente tecnico senior del Programma Gcca+ e dipende dalla Delegation of European Union in Guinea-Bissau. Gestisce i fondi ambientali dentro le grandi Convenzioni sul cambiamento climatico. «Sono un tecnico, la mia sede di lavoro è il ministero dell’ambiente della Guinea-Bissau, un Paese sottosviluppato, con istituzioni ancora fragili e un alto indice di corruzione – racconta – Il Programma di cui mi occupo ha due grandi anime: da una parte rafforzare o creare le istituzioni con cui dialogare, dall’altra dinamizzare lo sviluppo delle comunità rurali con attività sostenibili che aiutino ad adattarsi agli effetti prodotti dal cambiamento climatico in campi primari per la sopravvivenza: accessibilità all’acqua potabile, gestione sostenibile del suolo, conservazione delle foreste, sviluppo sostenibile, gestione delle aree costiere per evitare la salinificazione delle falde e delle bolanhas, le paludi dove si coltiva il riso». La bellezza del Tropico fa i conti con desertificazione ed erosione. «Li aiutiamo, ad esempio, a scavare i pozzi fornendo i mezzi adeguati, è un Paese sul mare in cui la vetta più alta è 200 metri».
Tanti anni all’estero tra la povertà del mondo e il desiderio di fermarsi. «Sono rientrata a Catania nel 2012 ed è stata dura, durissima, la città era veramente depressa. Non ho trovato lavoro, dopo tanti anni non capisci nemmeno il mercato del lavoro. L’anno scorso ho ripreso a collaborare con l’Università, con il dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, sez. di Biologia vegetale di Catania, con la prof. Antonia Cristaudo, per un progetto di conservazione della biodiversità». Nel frattempo è stata in Indonesia con la Banca mondiale per il fondo Redd per la conservazione delle foreste, bruciate per far posto alla produzione dell’olio di palma, «che però spesso è l’unica possibile attività generatrice di reddito. Le multinazionali hanno l’obbligo di sostenere il lavoro dei contadini con fertilizzanti, raccolta e trasporto» spiega. Una economia di monocoltura che distrugge la Terra, ma non l’unica scelta possibile. «Il grande merito di questi fondi – anche di quello di cui mi occupo oggi in Guinea-Bissau – è di cercare di cambiare il paradigma di sviluppo, di aiutare a creare attività sostenibili per l’ambiente e per gli esseri umani proprio nei Paesi che dipendono moltissimo dalle risorse naturali. Un modo per poter cambiare il futuro». È orgogliosa di aver realizzato due cose nel piccolo Stato africano: una campagna di prelievo delle acque per la valutazione del rischio sulla salute umana, in collaborazione con il Laboratorio di Igiene Ambientale e degli alimenti del Policlinico di Catania, con la prof. Margherita Ferrante – «ho portato tre valige zeppe di campioni d’acqua da analizzare. Un lavoro che è stato anche pubblicato» – e il sostegno dato per creare «una struttura governativa con cui poter dialogare, affrontare problematiche globali legate all’ambiente».
Il mal d’Africa l’ha stregata e il fascino coloniale, la grande biodiversità, la dignità della popolazione l’hanno spinta a ritornare. «Sono davvero poveri: si curano dal mago e le scuole sono quattro legni in cortile che riconosci quando vedi tanti bambini alti uguale. Non ci sono migranti, o meglio, sono pochissimi, non hanno la possibilità economica di pagarsi un passaggio con i trafficanti d’uomini. È una società più semplice, senza sovrastrutture e complicazioni. Non si vive da soli in Africa, hai bisogno dell’altro e questa è forse la cosa più bella: c’è un grande senso della collettività che noi abbiamo perso. Ti fa ricordare perché l’uomo ha deciso di vivere in società, insieme con gli altri».
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