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La sfida di Alessandra: «Faccio ricerca a Catania per mantenere una promessa»
Ha avuto coraggio ad andare negli Usa pur riconoscendo che, anche qui, la sua carriera si stava svolgendo in maniera brillante. «In quegli anni in Italia non erano ancora disponibili le tecnologie e i farmaci con cui ho lavorato sia alla George Mason sia alla John Hopkins University, ma realmente non ho mai abbandonato la Sicilia. Finiti gli studi sono arrivati i primi Grant, cioè dei finanziamenti al mio progetto di ricerca concessi, tra gli altri, dalla Fondazione Veronesi e dall’International Myeloma Foundation che mi ha ospitato nei laboratori del San Raffaele a Milano, dove ho trascorso il mio ultimo anno di attività. Poi, con il sostegno del collegio Ghislieri, sono tornata a Catania per portare la mia ricerca lì dove è iniziata. La vita del ricercatore – continua – è paragonabile a quella di un giornalista free-lance: non si è dipendenti di una struttura, ma si sceglie l’ente dove meglio si può realizzare la propria ricerca. Io, appena ho potuto, ho scelto l’Università di Catania».
Perché Catania?
«Per importare gli standard di qualità scientifica che ho appreso negli anni di esperienza nei migliori centri di ricerca del mondo: è questa l’idea dell’Università di Catania, condivisa dal Rettore Francesco Basile e dal presidente della Scuola Superiore Francesco Priolo. E i nostri pazienti hanno bisogno non solo di buone cure, ma anche di terapie innovative».
Qual è lo studio condotto dalla sua ricerca?
«Studio i tumori del sangue, in particolare il mieloma multiplo, che è spesso inguaribile, seppur curabile. Mi avvalgo di un team di giovani che collabora alla ricerca e, insieme, cerchiamo di studiare il carattere recidivo della patologia sia per prevederne le ricadute, sia per ridurne la frequenza, tramite una stimolazione del sistema immunitario. Ho iniziato a sviluppare l’idea quando ero ancora una studentessa di medicina grazie al supporto del prof. Francesco Di Raimondo, ordinario di Ematologia, e ormai sono quasi dieci anni che faccio ricerca in giro per il mondo. Catania è stata una base da cui mi sono lanciata nel 2010. A Baltimora e Milano ho generato dei dati preliminari piuttosto forti che dimostrano come il mieloma sia strettamente dipendente da una via molecolare che avverte l’ambiente esterno. L’idea, dunque, è che per combattere questo tumore non bisogna colpire in maniera selettiva solo le cellule neoplastiche, ma anche quelle che lo nutrono perché così sarà più facilmente aggredibile dalla chemioterapia. Indebolire togliendo il nutrimento è un’idea vecchia nell’ambito del mieloma, il modo in cui lo vogliamo fare è attraverso la modulazione e la disponibilità di amminoacidi, gli stessi che determinano un deterioramento della funzionalità immunitaria. Negli studi in atto vorremmo migliorare l’apporto di amminoacidi per migliorare la funzione immunologica e indebolire il tumore. È un’arma a doppio taglio per il tumore, fenomeno noto come “letalità sintetica”: si colpisce il tumore non in quanto cellula tumorale, ma in quanto cellula incapace di adattarsi a dei cambiamenti una volta modificato l’ambiente».
Alessandra Romano e il professor Francesco Di Raimondo, direttore dell’Unità operativa complessa di Ematologia al Policlinico
A dicembre scade il Grant: a che punto si augura che arrivi il progetto?
«A dimostrare l’efficacia di quanto ipotizzato; testeremo due farmaci, inibitori degli enzimi degradanti gli amminoacidi, il CB1158 e l’epacadostat, finora testati solo nei tumori solidi. Pensiamo, inoltre, di valutarli nei primi studi clinici, cioè su dei pazienti reali poiché, da luglio, dentro il Policlinico di Catania è attiva la Clinical Trial Unit, diretta dal professore Filippo Drago. Pazienti selezionati potranno ricevere farmaci innovativi, prima che siano disponibili in commercio, nell’ambito di studi clinici controllati, così come avviene nei centri avanzati per la cura dei tumori in Usa. E questa è già una vittoria».
È possibile fare ricerca a Catania?
«Sì, e anche bene. Non apprezzo il termine “fuga di cervelli” quando ci si riferisce a un giovane che cerca delle risposte fuori dal proprio territorio. Ciò che manca, invece, è lo scambio con l’estero: nessuno vuole venire qui. Un limite, a volte, è la lingua: gli italiani non parlano bene l’inglese e uno sforzo che va fatto è quello di istituire corsi specialistici e conferenze in inglese. Dunque che si vada all’estero, ma che si ritorni».
Qualcuno le ha mai detto di essere troppo giovane rispetto all’entità del progetto?
«In tanti. È una critica che spesso viene fatta perché i giovani hanno poca credibilità. La sfida è dare un’opportunità di crescita attraverso la comunità scientifica catanese anche ai miei colleghi più giovani».
Come si immagina nel futuro?
«Spero di vincere un concorso che riesca a darmi una stabilità economica. La precarietà pesa tanto perché con il tempo si diventa più rigidi e si vogliono delle certezze. Spero di avere sempre un camice addosso, perché è una delle cose che ha messo in discussione tutta la mia vita».
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