La nefrologa catanese volontaria anti-Covid in Piemonte: «Medici non devono stare a casa»

Di Redazione / 13 Aprile 2020

Catania – È medico, ma anche madre. La nefrologa Maricia Roccaro lo scorso 2 aprile ha preso un aereo per Torino, con destinazione l’ospedale civico di Settimo Torinese, adibito a centro Covid-19. Da settimane presta soccorso nei reparti del virus, dopo avere trascorso un periodo di quarantena in casa, a Catania, col compagno Giovanni e i figli Francesco di 12 anni e Angelica di 10. «Mi sentivo in colpa in quei giorni perché, soprattutto ora, noi medici non dobbiamo stare in casa», dice Maricia, che da 8 anni collabora con l’organizzazione “Valetudo”, che mette in circolo professionalità mediche lì dove vi è carenza, che nel 2013 ha fondato la onlus “Humanity” per offrire assistenza sanitaria a persone disagiate, che coordina la Rete civica della salute per Catania e provincia, ed è consigliere nazionale dell’associazione italiana Fabry Anderson (Aiaf), perché affetta anche lei da questa malattia rara. «So benissimo che potrei essere esposta più di altri a complicanze – afferma -, qualora contraessi il virus. Però, non mi sono voluta arrendere alla malattia. Non sono né folle né eroica: ritengo di stare svolgendo semplicemente il mio lavoro».

Come arriva la decisione di partire?

«Già a marzo mi trovavo in Piemonte per Valetudo. Sono rientrata in Sicilia il 10, giorno del “lockdown”, ma ero consapevole che, da lì a poco, le cose sarebbero ulteriormente cambiate. Mi sono messa in quarantena, trascorrendo tutto il tempo con la mia famiglia, come mai fatto prima: compiti online, giochi, faccende domestiche. Nel frattempo, sono stata contattata dall’ospedale di Caltagirone, ma ero ancora in isolamento. Passato il termine, ho preparato la valigia e sono andata a Settimo Torinese, trasformato già in centro Covid».

I suoi figli come hanno accolto questa scelta?

«Erano terrorizzati all’idea. È stato difficile fare comprendere loro che era l’unica opzione. Ad Angelica, in modo particolare, ripeto ogni giorno che se tutti i medici stessero a casa, sarebbe un disastro… Non è semplice: sono la loro mamma, prima di tutto. E ne sono orgogliosa perché stanno affrontando con giudizio questo momento. Li amo più di ogni altra cosa».

Qual è stato l’impatto emotivo appena entrata in contatto col centro Covid?

«Abbastanza scioccante. L’ospedale aveva già assunto atmosfere, silenzi e odori diversi. L’ingresso in Covid mi ha commosso: lì ci si parla con lo sguardo, sebbene si faccia fatica a riconoscersi a causa dell’imbracatura».

Tra i pazienti che segue ci sono siciliani?

«Sì. Ricordo con particolare affetto il figlio di una paziente ricoverata che dopo avere sentito al telefono la mia voce con inflessione meridionale si è messo a piangere».

Dovevo rientrare prima di Pasqua e, invece, ha deciso di restare fino al 19. Perché?

«C’è una carenza estrema di medici: in molti si sono ammalati e altri non si fanno avanti perché temono di affrontare una situazione troppo imponente. Ma non si può scegliere la malattia o il paziente da trattare…».

Ha paura?

«Certo… A volte è davvero forte. Indossiamo tre paia di guanti e non c’è parte del corpo scoperta. Ma si ha sempre come l’impressione di essere nudi di fronte al rischio del contagio. Poi, però, il pensiero va a mia mamma, venuta a mancare tre anni fa. E ricomincio un altro turno, che durerà non meno di 15 ore».

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