L’amore per la Sicilia continua a farle battere forte il cuore, ma la passione per la ricerca medica, cui si è aggiunto in seguito il sentimento verso il marito, l’hanno fatta rimanere, contro tutti i programmi e nonostante la successiva vittoria di un concorso a Messina, negli Usa. E con risultati professionali brillantissimi: la professoressa Basilia Zingarelli, 52enne originaria di Sant’Angelo di Brolo e nata a Patti, dirige l’intero laboratorio di ricerca per la Terapia intensiva del Children’s Hospital di Cincinnati (il secondo ospedale pediatrico Usa dopo quello di Boston) ed è docente universitaria a tempo indeterminato (caso molto raro negli Usa).
Basilia Zingarelli si è laureata nel 1990 in Medicina all’Università di Messina. «Già da studentessa al quarto anno – racconta così la sua “folgorazione sulla via della ricerca” – ho iniziato a frequentare l’Istituto di Farmacologia e il mio mentore, il prof. Achille Caputi, allora direttore della Farmacologia, mi ha instradato per la via accademica». Subito dopo la laurea, ha frequentato un anno di specializzazione alla scuola di Tossicologia medica sempre a Messina, «ma il prof. Caputi mi consigliò, vista la mia passione per la ricerca, di tentare un dottorato. Ho così congelato – allora si poteva fare – la specializzazione per fare il dottorato di ricerca in Medicina sperimentale». La professoressa Zingarelli è andata così dapprima un anno e mezzo a Napoli al dipartimento di Farmacologia sperimentale dell’università Federico II e poi alla Medical University of South Carolina a Charleston per un altro anno e mezzo.
«Finito il mio progetto di ricerca, ho presentato i dati a una conferenza della Shock Society, dove sono stata anche premiata come Young Investigator. È stato allora che il direttore della Terapia intensiva dell’ospedale dei bambini di Cincinnati mi chiese di andare a lavorare con loro, visto che avevano appena aperto il reparto e volevano avviare anche un laboratorio di ricerca. Ma la mia risposta è stata no: volevo tornare in Italia, ben felice anche di fare la guardia medica se non avessi potuto fare ricerca». Ma il direttore della Terapia intensiva di Cincinnati aveva compreso bene il valore della giovane siciliana e non demordeva: «Dovevo restare a Charleston fino a Natale ed ero tornata a casa, a Messina, per le vacanze estive: e lui mi ha chiamato pure lì. Mi ha persino mandato il suo assistente a New York, dove dovevo fare scalo per tornare a Charleston, per un colloquio». A quel punto, Basilia Zingarelli ha chiesto consiglio ai suoi mentori italiani: il prof. Caputi a Messina e il prof. Di Rosa a Napoli. «Entrambi mi hanno detto che era una offerta da non rifiutare, anche perché in Italia, nell’ambito della ricerca, non avevano all’epoca nulla da offrirmi. Mi sono allora convinta, pensando di rimanere un anno, fino alla fine del dottorato. Invece, dal 1995 sono rimasta a Cincinnati. Anche perché alla fine siamo esseri sociali: ho conosciuto mio marito a Cincinnati e mi sono sposata. E, anche se in seguito ho vinto un concorso da ricercatore universitario al Policlinico di Messina, a quel punto dovevo considerare anche i bisogni del mio consorte».
Peraltro, la carriera a Cincinnati andava a gonfie vele: «In ospedale è sempre stato apprezzato il mio lavoro, al punto che ogni promozione e carica mi veniva data senza averla chiesta. Qui capiscono che per essere competitivi non bisogna farsi sfuggire le persone valide». Tanto che la professoressa Zingarelli – che insegna Medicina sperimentale e Terapia intensiva ai pediatri specializzandi in Terapia intensiva e a quelli di Chirurgia del reparto di Trauma – fa parte del ristretto gruppo di docenti universitari negli Usa con la cattedra a tempo indeterminato: «Mi è stata offerta dall’ospedale senza che io l’avessi chiesta. Queste cose sono inimmaginabili purtroppo in Italia».
All’ospedale pediatrico di Cincinnati la professoressa Zingarelli è la direttrice dell’intero laboratorio di ricerca per la Terapia intensiva: «Coordino la ricerca di base, che poi viene tradotta sul paziente, quindi con un aspetto anche clinico. In questa veste, sono responsabile non solo dell’amministrazione, quindi di tutto il regolamento per mantenere il laboratorio, ma facilito anche il lavoro dei miei colleghi clinici che fanno pure loro ricerca di base applicata alla clinica». Questo laboratorio generale, dove lavorano una trentina di persone, ha un budget sui 3-4 milioni di dollari all’anno finanziati in parte dall’Istituto nazionale della Sanità Usa e in parte dai ricavi dello stesso ospedale, che è privato ma è anche una no profit, per cui il ricavato viene tutto reinvestito nella ricerca. All’interno della struttura, la luminare siciliana ha poi un proprio laboratorio di ricerca – con un budget annuo dai 500.000 ai 700.000 dollari – in cui operano 8 persone.
Il campo di ricerca è quello degli «aspetti molecolari della sindrome di disfunzione multiorgano in sepsi e trauma: i casi più letali, in pratica, che si vedono in Terapia intensiva. Noi – spiega – abbiamo modelli sperimentali in cui studiamo nuove terapie per questo tipo di sindrome perché purtroppo, nonostante la terapia antibiotica, specie nei casi di sepsi, c’è ancora un’alta percentuale di mortalità. Si tratta di infezioni per lo più batteriche molto severe che alla fine si disseminano per tutto il corpo e coinvolgono i maggiori organi con esiti spesso mortali. Il nostro gruppo è dedicato a sviluppare sia modelli diagnostici per identificare precocemente i pazienti a rischio sia nuove terapie». Ricerche che vengono poi applicate nella clinica e salvano vite: «Ho studiato ad esempio per molti anni in laboratorio un farmaco che ora il direttore della clinica e un’altra mia collega stanno sperimentando sui pazienti. E questo è ciò che mi piace di più di questo lavoro che mi dà tanta soddisfazione, anche se ho dovuto abbandonare la clinica: il fatto di essere a contatto coi clinici e di vedere che, anche dopo molti anni di lavoro in laboratorio, queste scoperte scientifiche hanno una applicazione. Questo farmaco, in particolare, dovrebbe aiutare il recupero metabolico dell’organo le cui cellule danneggiate non riescono a produrre e utilizzare l’energia efficacemente».
Oggi il laboratorio continua a fare ricerca sulla linea sepsi e trauma: «Stiamo cercando di stabilire come i processi di invecchiamento interferiscano con i processi di guarigione o di suscettibilità alla sindrome di disfunzione multiorgano, sperando così di scoprire i farmaci migliori che si adattano alla fascia di età del paziente». All’occorrenza, poi, il che la dice lunga anche sul lato “umano” della professoressa Zingarelli, la stessa dà supporto alle famiglie di piccoli pazienti italiani ricoverati al Children’s Hospital di Cincinnati.
Un lavoro di ricerca molto apprezzato negli Usa, tanto che, tra le varie cariche scientifiche che ricopre, la studiosa messinese dal 2006 è in commissione quasi permanente al National Institute of Health, l’Istituto nazionale della Sanità Usa: «Praticamente la commissione che valuta tutti i progetti che cercano fondi. La mia area specifica è chirurgia, trauma e anestesiologia, quindi applicata alla terapia intensiva, ma ultimamente sono anche capo-commissione dell’area bioingegneria». Inoltre, nel 2012 la professoressa Zingarelli è stata eletta presidente della Shock Society, associazione americana di clinici e scienziati che fanno ricerca nell’ambito di sepsi, shock cardiovascolare e trauma: «È una società nazionale che conta circa 550-600 membri e ne sono stata la terza donna presidentessa».
Ulteriore esempio, dunque, della validità della formazione italiana: «La formazione universitaria che ho ricevuto è stata magnifica. Io sono venuta negli Usa con l’esperienza di modelli sperimentali che avevo già imparato sia a Messina sia a Napoli, centri di eccellenza nella ricerca internazionale per quella politica che avevano i professori di confrontarsi col mondo e mandare gli studenti all’estero, dando loro una formazione più internazionale. Questo è stato per me un ottimo trampolino di lancio. Purtroppo, bisogna ammettere che l’Italia parte bene ma poi arranca nel tragitto. Certo, ogni tanto mi sento in colpa perché l’Italia ha investito su di me e sulla mia istruzione. E cosa ho dato io in cambio all’Italia?». Per evitare allora la fuga dei cervelli, occorrerebbe, secondo la scienziata siciliana, «assicurare che, dopo l’esperienza all’estero, al rientro in Italia ci sia la possibilità di applicare veramente ciò che si è imparato, fornendo ai ricercatori l’infrastruttura che purtroppo non c’è. E non intendo solo il posto fisso, quanto una questione di mentalità collaborativa». Perché negli Usa, dove il sistema è estremamente competitivo (solo il 15-20% dei progetti presentati viene finanziato a livello federale), «il merito è riconosciuto e, se ci metti la buona volontà, riesci. In Italia, invece, i fondi non sono sufficienti per avviare veramente un laboratorio e non c’è molta collaborazione tra ricerca di base e quella clinica. Almeno, così era tanti anni fa».
Resta un amore sconfinato per l’Isola che le ha dato i natali, dove la professoressa Zingarelli sogna di tornare magari dopo la pensione. Perché comunque, come tutti quelli che vivono altrove, sente la mancanza «soprattutto della famiglia. Poi, certo, manca anche il mare, la cucina, ma la famiglia di più». E talmente innamorata della Sicilia da non riuscire «ad ammetterne i difetti. Mio marito dice che faccio finta di non vedere la nostra disorganizzazione, quel nostro quieto vivere che lascia passare tutto». E perché comunque, per chi decide di andare all’estero, la strada è in salita: «Non è facile, all’inizio soprattutto. La lingua non è stata un problema, parlavo bene l’inglese, però la vita sociale e il cercare di adattarmi al sistema di vita diverso non è stato semplice, come pure, nel momento in cui ho iniziato a fare ricerca, la competizione. Sono sempre una straniera, anche se gli Usa sono abituati alla diversità. Insomma, ci sono stati baluardi anche qua». Di nazionalità, ma anche di genere: «Sono stata la prima donna membro di facoltà nella divisione di Terapia intensiva: e non è stato facile farsi accettare e dimostrare le mie qualità, anche in quanto donna, non solo come straniera. La Chirurgia e la Terapia intensiva sono sempre stati campi considerati maschili, un po’ meno nell’ultimo decennio. Ma il fare ricerca scientifica a livello molto elevato, mi ha fatto apprezzare dai miei colleghi e ciò per me è stata una grande gratificazione».
E anche se, di fronte a tanti successi professionali e privati, la professoressa Zingarelli non ritiene di avere rimpianti, «mi chiedo spesso: se rinascessi un’altra volta, rifarei le stesse cose? E dico sempre di no. Voglio vedere se riesco a fare qualche altra cosa». L’animo della ricercatrice, insomma, prevale sempre. Alla fine, un consiglio ai giovani: «Soprattutto non sfiduciarsi e seguire sempre le proprie passioni, facendo qualcosa che piace ma che è anche a servizio degli altri a un elevato livello di qualità».