La scena è semplice: un tavolo da cucina con i prodotti in primo piano, uno schermo sullo sfondo che rimanda i gesti del fare in cucina (quelli di Chiaramonte e del suo amico-chef Giuseppe Commendatore di Augusta) e le foto di frutti curiosi, tavole di botanica, agricoltori illuminati, quadri, copertine di libri.
«Per me – spiega Chiaramonte – è un invito a riavvicinare un po’ la gente ai propri sensi, ad avere anche una propria indipendenza dalle dipendenze alimentari che abbiamo. Oggi siamo un po’ distanti dalla comprensione di come funzioniamo».
Dobbiamo reimparare a mangiare?
«Sì, fondamentalmente, tutti parliamo di cibo ma siamo disattenti, non conosciamo la biodiversità, non conosciamo le realtà agricole, ci accontentiamo di quello che vediamo in Tv senza approfondire. Quando si compra il cibo bisogna metterci un po’ d’impegno e non essere pigri e furtivi. Sicuramente qualche passo avanti è stato fatto, i mercatini della Coldiretti e quelli rionali stanno riprendendo quota, c’è una maggiore sensibilità della gente, anche se si tratta di una piccolissima parte, meno del 10% della popolazione. Però c’è chi si interessa molto all’agricoltura, al tipo di prodotti agricoli, semplicemente a come fare un piatto di patate bollite buone, magari conoscendo il nome della varietà di patate. Questo però richiede più tempo, ci vuole anche una certa disciplina, le cose belle, le cose buone richiedono disciplina, anche nella ricerca».
E’ più affascinante questa ricerca, la storia che c’è dietro un prodotto, una pianta, un pesce, o il processo di trasformazione delle materie prime?
«A me piace la parte espressiva del cibo. In qualche mondo un’arancia o un gambero possono essere qualcosa di musicale, hanno secondo me una coloritura, un’espressione. Andare dietro a questa tavolozza di colori mi affascina. In Italia abbiamo il primato mondiale della biodiversità, ma non riconosciamo i nostri territori, non sappiamo di avere tantissimi tipi di vegetazione anche selvatica con prodotti alternativi alle vitamine che magari prendiamo in capsule. E’ questo che affascina fino al punto di volerlo condividere».
Per questo le lezioni a teatro?
«In realtà sono dei racconti di quello che ruota attorno a questo mondo, racconti su quello che mettiamo dentro di noi perché alla fine noi “mangiamo” questo mondo ma non lo conosciamo».
Il riscontro del pubblico?
«Nasce una dialettica, molti mi chiedono dove comprare gli alberi, si risveglia un po’ di curiosità».
Nello “spettacolo” si citano tanti libri, tanti testi dedicati al cibo, alla cucina, all’agricoltura. Uno fondamentale?
«Michael Pollan “La botanica del desiderio” per cominciare a guardare il cibo in un’altra maniera».
Cibo in tv, al cinema, a teatro, ma è definitivamente uscito dalle cucine?
«Dal punto di vista del privato il cibo è uscito un po’ di casa, preferiamo il cibo surgelato, conservato piuttosto che quello fragrante. Se parliamo di ristorazione ci sono ancora delle trattorie in cui i cuochi comprano ancora dai contadini piuttosto che dalla grande distribuzione sobbarcandosi un lavoro complicatissimo. Secondo me la cucina d’autore deve diventare la cucina del “colpo secco”.
Cioè?
«Due-tre ingredienti in un piatto: appena lavorati, appena assecondati, senza stravolgerli più di tanto. Quando una patata è saporitissima è già una festa sentirla così, non serve la moda della robotica in cucina che spacca, frulla, disidrata. In un’altra epoca sarebbe stata una magia, oggi è diventata un’esagerazione. Noi, comunque, abbiamo i denti e il tempo di passate, passatine e cremine secondo me è finito».