L'INTERVISTA
Il sogno a 5 stelle di Nino Sangiorgio: «Investo in una Catania che spreca bellezza»
Ha ristrutturato un palazzo nel centro storico per farne un hotel di lusso. «Sono stato emigrante con la mia famiglia, non ho mai dimenticato il valore del lavoro»
Nino Sangiorgio è uno che non ha mai avuto “paura” di sognare in grande. Da quando con la sua famiglia si trasferì da quel di Adrano in Belgio per andare a lavorare. Da quel momento non si è più fermato e oggi è pronto a battezzare la sua nuova creatura, un hotel a cinque stelle che porta il suo nome ricavato nel vecchio Palazzo Hernandez, in piazza cardinale Pappalardo (l’ex piazza Duca di Genova).
Gli alberghi “classici” sono in crisi e lei ne apre uno?
«Era un mio sogno da sempre. Quando il mediatore mi ha fatto vedere questo posto mi è piaciuto subito. Poi, quando l’ho fatto vedere ad altre persone mi hanno detto “ma che cavolo stai comprando?” (ride ndr), ma nella mia vita è stato sempre così. Quando ho fatto i capannoni a Piano Tavola ci credevo solo io. La stessa cosa adesso. Era un palazzo decadente, vecchio, c’erano i topi, i tetti sfondati e la gente che ci bivaccava dentro».
Lei è di Adrano, perché ha scelto di investire a Catania?
«Vivo sempre ad Adrano, sono radicato nella cultura del paese, mi piace la “piazza”, però mi sento adottato da questa città che “spreca” troppo, potrebbe dare molto di più. Ho girato tanto, tantissimi posti vendono il “niente” e fanno una marea di soldi, noi abbiamo le cose più belle e tutti i requisiti, ma Catania la teniamo sporca e siamo strafottenti. Tutto questo quando, a mio parere, i siciliani dovrebbero concentrarsi solo su agricoltura di nicchia e turismo…»
Questo è un vecchio slogan…
«Lo so, ma nessuno ci crede, tutti restano attaccati alla mammella dello Stato…».
Lei però ci ha creduto…
«Io ci credo perché, per me, sono maturati i tempi per dover rischiare. A questo progetto ci ho pensato a 59 anni, oggi ne ho 63. Abbiamo iniziato i lavori nel 2020, il covid ci ha bloccato, ma ora siamo in dirittura d’arrivo».
Gli inizi
Da dov’è partito?
«Papà agricoltore, grandissimo lavoratore e mamma casalinga. In casa eravamo quattro figli, io e tre sorelle. Eravamo una famiglia povera, a 16 anni frequentavo il “geometra”, ma chiedere la paghetta a mio padre per me era già pesante, così mezza giornata andavo a scuola, l’altra mezza a lavorare, ho cambiato tanti mestieri».
Poi siete emigrati…
«Mia madre aveva una sorella in Belgio, le sembrava che lì ci fosse la luna e convinse mio padre ad andare anche noi per risollevarci economicamente. Lui aveva comprato una piccola proprietà a Motta Sant’Anastasia, ma per impiantare le arance ci volevano dei soldi, si era sposata la mia prima sorella e il budget familiare si era prosciugato così nel ‘77 siamo partiti. Ho ancora negli occhi la fotografia del classico viaggio degli emigrati con la valigia legata con lo spago. Nessuno di noi aveva mai messo piede fuori dalla Sicilia».
E com’è andata?
«In Belgio mio padre faceva il manovale, siamo rimasti tre anni, poi io tornai in Sicilia per fare il militare, lui perché lì si sentiva sminuito. Da agricoltore gestiva dei lavoranti e in Belgio era uno dei tanti».
L’arte di arrangiarsi
Il suo primo lavoro vero?
«Il fabbro, anzi il serramentista. Ma si guadagnava poco, e io dovevo pagarmi nove cambiali per la macchina nuova che avevo comprato, mi piaceva uscire con gli amici, vestirmi bene… Così ho fatto il raccoglitore di arance per sei mesi, allora si “buscavano” 28mila lire al giorno cifra che da fabbro non riuscivo a guadagnare. Ma ho fatto anche il carpentiere, l’arte d’arrangiarsi mi ha sempre accompagnato, cosa che oggi i ragazzi non sanno nemmeno cosa sia».
Quando è diventato imprenditore edile?
«In realtà è stato tutto un po’ per caso. Lavoravo in una ditta di Piano Tavola che faceva serramenti, ero diventato bravo nel mio mestiere e a 23 anni mi sposai. Mio suocero ci aveva dato la classica casa “se ve la rifinite voi ci potete andare ad abitare”, e quel sabato con mia moglie non trovai nulla che mi piacesse per sistemarla. Così andai dal mio principale che vendeva anche materiale per l’edilizia e gli proposi di comprare quello che ci serviva pagandolo con un anticipo della liquidazione. Sistemai la nostra casa e da quel momento non mi sono più fermato».
La sua prima azienda vera?
«Nell’88/89, una Snc la Sapim nata a Piano Tavola. L’attività andava bene e cominciai a realizzare le prime costruzioni per conto mio, due villette a Mascalucia, altre palazzine ad Adrano…».
Serramentista, commerciante d’alluminio, costruttore… oggi come si definirebbe?
«Ah boh (ride ndr). Direi il fabbro, l’artigiano: è l’unico il mestiere che ho sempre saputo fare. Anche di questa costruzione (Palazzo Sangiorgio) conosco ogni vite e so come sono stati risolti i problemi che, man mano, si sono presentati. L’architetto (Michele Sclafani ndr) parla con me e io parlo con le maestranze».
Il quartiere
La Civita è il primo quartiere di Catania e quello in cui oggi convive la tradizione del “curtigghiu” con la civitas “smart”. Come siete stati accolti?
«All’inizio non tanto bene… Abbiamo creato dei disagi e me ne scuso, è arrivata pure qualche denuncia, ma oggi tutti mi fanno i complimenti… “che bella cosa che avete fatto”».
La sua più grande dote?
«Quella di vedere laddove gli altri non vedevano e di saper diversificare».
Se un turista esce dal suo Palazzo a 5 stelle e vede la spazzatura sul marciapiede come ci rimane?
«Che le devo dire? Se lei esce da un resort in Brasile o in Thailandia trova di tutto e di più. Io spero che i catanesi capiscano i tesori che hanno…».
Cosa vuol dire fare oggi l’imprenditore in Sicilia?
«Dopo 40 anni posso testimoniare che in passato è stato più difficile, oggi la situazione sembra migliorata, però penso che uno straniero qui abbia sempre più possibilità. Noi siciliani abbiamo sempre il problema dell’invidia. Io, invece, ho sempre creduto nella collaborazione, quasi tutto il materiale con il quale abbiamo realizzato questo palazzo proviene da aziende siciliane».
Ha mai pensato di investire fuori? Di andarsene?
«Ma io già ci sono stato fuori dalla Sicilia, quando eravamo emigrati. È stata una bellissima esperienza che mi ha formato tantissimo, ma lavorare in Sicilia mi piace. Qui non manca niente, lo devono solo capire i siciliani».
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