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Il fotoreporter-chef: «Non mi pagavano più, così ho deciso di cambiare mestiere»

Di Carmen Greco |

Prima era dietro l’obiettivo, ora è dietro i fornelli. Ma la passione creativa, giura, è la stessa. Di certo, sono cambiati i ritmi della sua vita. Passare da un aereo all’altro e ritrovarsi “chiuso” in cucina è veramente una rivoluzione. «Ma nella vita arriva un momento in cui ti vuoi fermare», assicura Francesco Troina, 59 anni, fotografo per caso e cuoco per scelta.

Per caso, perché la sua carriera s’è iniziata ai tempi dell’università, quando studente d’architettura a Firenze, s’imbattè nella storia di un topo d’auto che collaborava con i vigili urbani per rimuovere le auto parcheggiate in divieto. «A me che arrivavo da Catania, sembrò assurda l’idea di uno scassinatore legalizzato legalizzato che apriva le auto consentendo ai vigili di rimuoverle per metterle sul carro attrezzi e portarle via. Mi ero già innamorato della fotografia, così, feci un reportage sulla vicenda, lo “scassinatore” fu felice di essere il protagonista della storia e con questo servizio in tasca andai a Milano e riuscii a venderlo ad Epoca che lo pubblicò. Non conoscevo nessuno, ma allora mi pagarono un milione, Da lì, iniziai a fare il fotoreporter, professione cui ho dedicato 25 anni». Troina ha vissuto il momento d’oro del fotogiornalismo italiano lavorando con la Granata press, i settimanali Epoca, Panorama, Espresso, il Venerdì. «Facevo il giro delle redazioni, andavo a Milano e vendevo i miei servizi. Viaggiando, ho instaurato un rapporto intenso con l’Ufficio del turismo spagnolo, ho venduto molti servizi sulla Spagna ai giornali italiani, ho girato parecchio. Fino a quando il mercato è andato a morire, i compensi si sono ridotti all’osso, i pagamenti posticipati ad un anno, se facevo un servizio sulla festa di Sant’Agata del 2019, la pubblicavi nel 2020 e te la pagavano nel 2021. Non era più possibile. Amavo il mio lavoro ma, ad un certo punto, ho capito con la crisi dei giornali che ci sarebbe stato sempre meno spazio per il mestiere. Nel frattempo mi ero specializzato in ambiti interni, arredamenti, architettura, enogastronomia e fotografato i piatti degli chef».

Di qui il passaggio al piatto cucinato è stato breve. «Diciamo che è stata un’evoluzione. Mi ha sempre appassionato cucinare – racconta – da bambino stavo accattato a mia madre, una cuoca meravigliosa, catanese doc, stavo lì a vederla fare, chiudevamo assieme i tortellini che lei faceva con il brodo di gallina. Per cui, dentro di me l’idea che prima o poi nella mia vita mi sarei dedicato alla cucina c’era già da almeno vent’anni».

Quel momento è arrivato poco più di due mesi fa. «Non ero stanco del lavoro che facevo, mi appassionava e mi piaceva tantissimo, mi ha stancato solo quando non mi pagavano più, oppure offrivano compensi ridicoli rispetto a quello che guadagnavo al Corriere negli Anni Novanta, quando una foto veniva pagata 100mila lire. Con la cucina si è chiuso un po’ un cerchio. A Firenze, da studente, cucinavo ed era consuetudine giornaliera che ad ora di pranzo arrivasse sempre qualcuno nella casa che dividevo con la mia fidanzata d’allora. Si era sparsa la voce che a casa mia si cucinava ed era un viavai continuo. Negli ultimi anni, ho girato per cucine stellate facendo foto. Questo ambiente asettico mi ha affascinato tantissimo, e quindi il “passaggio” è stato quasi spontaneo. Ho avuto occasione di cominciare a cucinare in un ristorante a Milano, poi varie altre occasioni, mi chiamavano amici ristoratori che cercavano personale. Ho iniziato in un ruolo privilegiato, facevo già dei piatti che avevo imparato a realizzare non in maniera casalinga ma con una logica da ristorazione, all’inizio è stata una cosa un po’ ostica, poi man mano…».

Troina si definisce un cuoco, «il ruolo di chef soprattutto in questo momento, in cui ci sono questi personaggi più teatrali e televisivi mi disorienta. La mia è una cucina mediterranea una sorta di rivisitazione di piatti che ci sono sempre stati, visti con un altro occhio». Per esempio, in menù c’è il calamaro ripieno, ma di cous cous di mare. «Sì, riempiamo questo calamaro e lo facciamo piastrato o panato e fritto, quindi una sorta di tempura di calamaro ripieno. Un altro piatto classico rivisitato è ‘a tunnina ccà cipuddata, la mia versione è una mattonella-tartare di tonno, scottata che resta al centro cruda e poi viene “montata” a dadini come una tartare con una cipolla caramellata all’Etna rosso». Il fotochef non è uno con la “fissa” del km zero. «Ci sono cose nel mondo così belle e interessanti che valgono la pena anche se non le trovi dietro l’angolo, per esempio i percebes (i crostacei a forma di “unghia” che si trovano aggrappati alle scogliere della Galizia ndr), da quando li ho scoperti li considero i più buoni che esistano. Altro esempio, il salmone, una scelta che molti hanno criticato, ma quello che abbiamo in menù è un salmone selvatico pescato all’amo».

Il senso senso estetico delle sue composizioni fotografiche Troina oggi, lo ha trasferito negli impiattamenti, «anche se – confessa – l’ultimo tocco è di Dayana Di Bella, sua compagna nella vita e in cucina che ha scelto anche il nome del ristorante “Tif”, acronimo di Tipical innovation food. «Devo dire che tutt’ora mi riesce più facile una composizione fotografica – ammette – sono convinto che le foto ci siano già, basta andare a prendere, le “ vedi” e scatti».

Il piatto del cuore, è anche quello “impossibile” perché quando ci sono di mezzo i sentimenti è sempre tutto più difficile, anche in cucina. «Mia madre faceva un brasato stupendo che cucinava per le occasioni importanti. Un brasato con le patate, ma io non riesco a farlo, e mentre altri piatti suoi li ho fatti miei, questo non riesco proprio a riprodurlo». Aprire un ristorante proprio oggi a Catania è una scommessa, tanto più in un momento storico non felice per l’economia della città, ma Francesco Troina è convinto che, alla lunga, vince chi ha un progetto chiaro in mente. «Una volta si apriva la trattoria, ora è diventato più complicato perché l’offerta è ampia ma quello che trovi girando, almeno a Catania, secondo me è davvero di basso livello. Si distingue chi ha un progetto ed ha un’idea ben chiara di quello che fa, tutto il resto sono episodi che durano lo spazio di un mattino. A me piace una ristorazione fatta con la testa che porta avanti un discorso un po’ più ampio e anche se sono consapevole di quanto oggi sia un azzardo impegnarsi nella ristorazione, ho avuto la fortuna di poter condividere questa avventura con un socio, Renzo Giuffrida, con il quale condividiamo la stessa filosofia. Da anni ci proponevamo di aprire un ristorante, poi l’incontro con Dayana (che è la “dea ex machina” in sala e all’occorrenza in cucina), maitre velocissima, comunicativa, non ché “mostro” di bravura anche in cucina, è stato fondamentale». La macchina fotografica è stata messa definitivamente nel cassetto? «In realtà continuo a fare foto anche se con il telefonino, più che altro qualche tempo fa i ladri sono entrati in casa e mi hanno rubato tutta l’attrezzatura. È stata un’esperienza talmente traumatica che non ho più ricomprato tutto ciò che avevo, chissà forse un giorno lo farò».

Al momento il ristorante è una “chicca” per il giro degli amici, si comincia così. «Ma è arrivata anche tanta gente che non ci conosce, ci stiamo muovendo pian piano anche grazie alle recensione di Tripadvisor. Sì, lo so, è un’arma a doppio taglio, io non lo uso, però devo ammettere che quando leggo recensioni positive mi fa piacere, mi gratifica. Resta, però, un mezzo perverso e va preso con le pinze, forse dovrebbe essere un po’ più controllato». Come si passi da una vita superdinamica a quella usurante di cuoco con orari precisi e spesa da fare tutti i giorni è presto detto: con la passione.

«Devo dire che ero abbastanza conscio del cambio di vita radicale cui sarei andato incontro – dice Troina – centro, mi manca a fotografia, mi manca salire e scendere dagli aerei, ma sono delle cose che ho fatto per tanto tempo nella mia vita. Mi piace dire che questa del cuoco è la mia vita 2.0, e magari, ci potrebbe essere anche una vita 3.0 che mi porterà chissà dove a fare qualcos’altro. Ho cominciato studiando da architetto, ma mi sono reso contro molto presto che avevo una visione troppo poetica di quel mestiere, non faceva per me. Oggi, sono contento perché ho il mio ristorante, ho accanto persone cui voglio bene e con le quali mi piace avere degli scambi. Dove mi porterà tutto questo da qui a dieci anni faccio fatica ad immaginarlo, così come non pensavo di ritornare a catania dopo Firenze, Milano, Madrid, Barcellona, Londra.

In realtà i miei contatti con la città non li ho mai perduti, ma facendo un raffronto con quello che io ho lasciato oggi mi accorgo di quanto il dissesto sia evidente in tutte le forme, la vita quotidiana, nei trasporti, nei servizi. Poi, però, ci sono delle piccole cose che accadono, una piazza ripulita, una nuova fermata della metro, timidi tentativi. Certo avrei preferito altro invece della fontana alla fine di via Etnea che non serve a niente. Peccato. Vedo una gran quantità di turisti venire giornalmente in questa città ma li vedo anche abbandonati a loro stessi e se non fosse per gli imprenditori locali potrebbero ritornarsene a casa. Per fortuna ci sono questi coraggiosi e da loro può venire una rinascita. Fino a che c’è cultura c’è speranza. Non stanno scappando tutti via, c’è gente che ritorna e che fa delle cose per questa città».

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