Il chirurgo catanese tornato negli Usa per la seconda volta: «Ma non sono un cervello in fuga»

Di Maria Ausilia Boemi / 10 Novembre 2020

Catanese – anzi «catanesissimo», come si definisce lui con un sorriso -, medico chirurgo sposato con una concittadina, padre di 3 figli di 16, 14 e 12 anni, ha scelto di realizzare la sua carriera a Philadelphia, negli Usa, dove a 47 anni è professore associato alla Thomas Jefferson University, in attesa di promozione a docente ordinario, ed è direttore della Divisione di Chirurgia del Jefferson Methodist Hospital, uno dei 10 ospedali collegati all’ateneo. Francesco Palazzo però chiarisce subito di non sentirsi in alcun modo un cervello in fuga, ma di «essere un professionista che ha avuto la fortuna di esercitare all’estero e di trovare delle porte aperte – per tempistica, volontà e un pizzico di bravura – che mi hanno consentito di scoprire una realtà che non conoscevo e di cui mi sono appassionato».

Laureatosi in Medicina nel 1997 all’università di Catania e poi specializzatosi in Chirurgia generale nello stesso ateneo, durante la specializzazione Francesco Palazzo ha avuto la possibilità di trascorrere un periodo da specializzando estero alla Thomas Jefferson University a Philadelphia: «Da lì si è rafforzato il mio desiderio di fare un’esperienza più prolungata negli Usa. Finita quindi la specializzazione in Italia, sono riuscito ad entrare in specializzazione in America, sempre nello stesso ateneo di Philadelphia, rimanendo così specializzando per circa 10 anni tra due continenti. Sono così specialista in Chirurgia generale sia in Italia che negli Usa: inoltre, dopo i 5 anni a Philadelphia, ho fatto un anno aggiuntivo a San Francisco in Chirurgia mininvasiva e laparoscopica».

L’idea del prof. Palazzo e della moglie – anche lei catanese e avvocato, pur se negli Usa ha preferito dividersi tra il ruolo di mamma e di interprete e oggi di designer d’interni – era quella di tornare in Italia: «All’epoca avevamo già 2 figlie, un piccoletto in arrivo e siamo rientrati a Catania, dove ho lavorato per 3 anni all’ospedale Vittorio Emanuele. Ma in questo periodo ci siamo accorti che gli anni all’estero ci avevano cambiato, ci mancava qualcosa. Proprio allora, il mio vecchio capo di Philadelphia mi offrì un posto negli Usa e così siamo tornati qui nel 2011. All’epoca sono entrato all’università come assistant professor, nel 2016 sono diventato associato, mentre nel 2014 mi hanno promosso direttore della Divisione di Chirurgia del Jefferson Methodist Hospital».

Una doppia partenza, quindi, quella della famiglia Palazzo: «Eravamo tornati perché avevamo sempre pensato che la nostra esperienza all’estero sarebbe stata temporanea. Siamo due catanesi che hanno avuto la fortuna di viaggiare, di potere studiare fuori, ma le nostre famiglie sono in Sicilia, era normale pensare di tornare».

Ci tiene tuttavia a sottolineare di non essere un cervello in fuga: «Sarei totalmente arrogante a dichiararmi tale. Io penso di essere un professionista che ha avuto la fortuna di coniugare la possibilità di fare attività clinica, operare ad alti livelli, insegnare ai giovani, scrivere e fare ricerca in ambito chirurgico dando un piccolo contributo pratico, ma efficace, nella soluzione di problemi quotidiani per i chirurghi».

Le motivazioni delle due partenze verso gli Usa, peraltro, sono molto diverse: «Io sono orgogliosissimo della ottima formazione ricevuta dall’università di Catania durante il percorso di laurea, mentre invece la specializzazione, per motivi storici e culturali, l’ho vissuta un po’ come se lavorassi con il freno a mano tirato. La mia prima venuta negli Usa è stata quindi dettata dalla volontà di imparare dai migliori senza aspettare che arrivasse il mio turno. La seconda volta siamo venuti invece nel tentativo di continuare un cammino umano e professionale che avevamo iniziato: volevo fare la carriera universitaria e lavorare a un livello diverso. Ero tornato nel 2008, a 35 anni, al Vittorio Emanuele: operavo, e per tante cose lì ho avuto porte aperte e supporto. Però c’erano delle limitazioni perché non lavoravamo con l’università, non pubblicavamo granché, il volume di casi operatori era limitato rispetto a ciò che avevo fatto in precedenza. Per quanto fossi catanese e contento di essere tornato, inevitabilmente ero stato immerso per 6 anni in una realtà che aveva creato aspettative in me, non tutte poi soddisfatte in Italia. Per cui, considerato che i nostri figli erano abbastanza piccoli, con mia moglie abbiamo pensato che era il caso di cogliere l’opportunità che mi veniva offerta dal mio professore americano».

Ma anche se il prof. Palazzo non è un cervello in fuga, tanti invece lo sono: ed è un peccato regalare all’estero dei giovani ottimamente preparati: «Non lo so. Conosco alcuni che sono fuggiti da realtà professionali opprimenti o situazioni economiche difficili, ma conosco anche tanti che sono partiti seguendo un’ispirazione, così come conosco tantissimi che sono rimasti e continuano a dare in Italia un contributo fondamentale. Se parliamo di cervelli in fuga, secondo me c’è un retrogusto di vittimismo che riesce a offendere ugualmente sia quelli che rimangono e che trovano la loro strada, la loro passione e i loro successi quotidiani in Italia, sia quelli che sono andati fuori non scappando, ma perché come me hanno seguito un percorso professionale in un mondo lavorativo internazionale. Le radici, secondo me, uno le può avere in tanti posti: noi abbiamo profondissime radici catanesi, i miei genitori sono due professionisti di cui sono orgogliosissimo, come sono lo sono dei tanti amici che lavorano duramente ogni giorno a Catania. Ognuno però ha una storia personale diversa: il mio è un percorso che, per fortuna o per tempistica, mi ha portato a pensare a un certo punto che l’ambiente dove mi trovo oggi fosse un po’ meno capriccioso, avesse regole un po’ più chiare – o che io riuscivo a capire meglio – di quelle italiane».

Né il prof. Palazzo, con la moglie, esclude un eventuale ulteriore rientro in Italia: «Questo gioco lo facciamo continuamente con mia moglie e con i miei più cari amici, siciliani o italiani in generale. Tantissimi italiani vivono una nostalgia cronica ma, forse anche per il fatto di essere tornati e ripartiti, i nostri figli si definiscono italiani e americani e dicono di avere due case: una a Philadelphia e una a Catania; ogni estate non passano meno di due mesi a Catania e hanno uno spiccato accento catanese. Noi vivremo in base a dove staranno i nostri figli. So che comunque sicuramente passerò molto tempo in Italia, della quale ci sono molte cose che mi mancano e a cui ho dovuto rinunciare».

Della Sicilia a Francesco Palazzo mancano, ovviamente, soprattutto gli affetti: «Mia sorella più piccola vive in Svizzera, ma i miei genitori, che sono in grandissima forma, sono a Catania. Mi manca quindi la mia famiglia completa, mi mancano gli amici e, da morire, il mare: io e mia moglie siamo appassionati di windsurf, passavamo le estati a fare windsurf tra San Giovanni Li Cuti e Portopalo. Non mi manca invece la spazzatura: non so perché c’è questo incomprensibile disinteresse per quello che abbiamo di meraviglioso. Penso che sia frustrante per tutti che non si riesca ad apprezzare ciò che abbiamo in Sicilia».

Nel frattempo, in attesa della cattedra di ordinario all’università, per Francesco Palazzo «c’è il filone clinico con la sala operatoria che sta andando alla grande. Ho poi scritto un libro con un fantastico gruppo di chirurghi americani che si intitola “Fondamentali di chirurgia generale”, un manuale per gli specializzandi – consultato un po’ in tutto il mondo – di cui sono molto orgoglioso».

Non è stato certo tutto rose e fiori, anche se, tornando indietro con la mente, il luminare catanese non ricorda grandi difficoltà professionali: «Forse la stanchezza fisica da specializzando negli Usa che in Italia non avevo mai conosciuto. Certe carriere come quella chirurgica richiedono così tanto in termine di ore di lavoro e coinvolgimento quotidiano di vita che in una tasca della tuta tenevo una sveglietta da tavolo perché, lavorando 18 ore al giorno, mi ritagliavo qualche minuto per dei micro-pisolini. Forse però la cosa più difficile è avere perso tanti momenti di vita – come matrimoni o funerali – della mia famiglia».

Difficoltà alle quali hanno però fatto da contraltare tante soddisfazioni: «Da un punto di vista umano e personale, quella di essere riusciti con mia moglie a crescere dei figli che capiscono da dove veniamo e amano la Sicilia. Dal punto di vista professionale, avere avuto l’opportunità di fare sentire la mia voce in ambito chirurgico, partecipando a decisioni, scritture, conversazioni che stabiliscono e cambiano i metodi di approccio alla chirurgia».

E infine, un consiglio non del tutto banale, se non nel merito sicuramente nel metodo, ai giovani: «Secondo me c’è tanto di quel rumore in questo mondo così pieno di informazioni e di distrazioni che è difficile sentire la tua voce e riuscire a percepire quello che per te è più interessante e ha un significato. Se riesci però a tenere gli occhi e le orecchie aperte, in mezzo a tanto rumore riuscirai a trovare la strada che ti può portare a realizzare in maniera orgogliosa e d’impatto la tua passione». E scusate se è poco.

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Pubblicato da:
Redazione
Tag: catanese cervelli in fuga chirurgia francesco palazzo ospedali philadelphia stati uniti