Catania – Il pane come il vino: autoctono. Così come una bottiglia di vino è espressione di un determinato vitigno, allo stesso modo una pagnotta deve avere il sapore di un grano locale. È la filosofia del “nuovo” pane. Che poi è quella del “vero” pane, che dura una settimana, si consuma fino all’ultimo e non si butta, come insegnavano le nonne. Ostracizzato dalla tavola come “veleno” per le diete senza carboidrati, il pane rientra così dalla finestra riprendendosi lo storico ruolo di alimento principe, magari schiacciando l’occhio al mondo gourmet. Una consapevolezza che, man mano, sta entrando nella testa dei consumatori anche grazie al lavoro di tanti fornai “illuminati” che hanno deciso di tradurre in una forma di pane l’inscindibile rapporto con la terra, quella a due passi da casa.
Tra questi c’è Valeria Messina, che ha abbandonato la toga di avvocato per il grembiule da fornaia. E non per il classico colpo di testa del “cambio vita”. Anzi. «Fare l’avvocato mi piaceva – dice – è un mestiere che ho fatto con passione e che mi ha consentito di mettere da parte anche i soldi necessari da investire in questo nuovo progetto e poter dire a 45 anni “cambio vita”. Diciamo che, in antitesi con la cultura italiana, sono una persona che non vuole fare la stessa cosa tutta la vita, ho bisogno di avere sempre nuovi stimoli e di cambiare».
Com’è nata la passione per il pane?
«Ho iniziato a fare il pane in casa per le mie figlie. Visto che il pane si mangia tutti i giorni volevo che fosse qualcosa di buono e genuino. La mattina andavo al lavoro, la notte impastavo e l’indomani all’alba infornavo. All’inizio non nascondo che fosse una cosa pressoché immangiabile, povere figlie… Il pane che, alla fine, è una cosa semplice – perché sostanzialmente si tratta di mettere assieme due ingredienti, acqua e farina oltre al lievito e un po’ di sale – non è affatto una cosa facile. Nel processo di lavorazione intervengono mille variabili che possono influire sul risultato».
E poi?
«Questa passione è diventata sempre più coinvolgente, sono andata in giro per l’Italia a frequentare dei corsi e, a poco a poco, questo pane che era “di casa” è diventato il pane di mia sorella, dei parenti, degli amici…».
Ed è diventato un mestiere…
«Lavoravo da una decina d’anni come responsabile dell’ufficio legale di un’azienda del catanese ed ho preso un anno di aspettativa. Volevo capire che ero stanca del lavoro o stanca in generale e se quest’idea che mi frullava in testa fosse già diventata dentro di me una decisione. In effetti era così, perché alla fine dell’anno ho dato le dimissioni ed ho cominciato a dare concretezza al progetto, a cercare i locali, a guardare attrezzature… Chiaramente per tutto questo è stato necessario uno studio, un’analisi di fattibilità da un punto di vista economico e commerciale per capire quale fosse la “domanda” a Catania per una cosa del genere. La passione da sola non basta, quella è il motore».
Adesso da poco più di un anno avete “le mani in pasta”. Perché il nome Biancuccia?
«È il nome di un grano antico siciliano, come Timilìa, Russello, Perciasacchi… Ho scelto Biancuccia perché la nonna di mio marito, nonna Bianca, è stata direttrice della stazione sperimentale di granicoltura di Caltagirone fra gli Anni Sessanta e Settanta. Quando la conobbi era una nonnina in pensione da anni, una donna di grandissima cultura, sapevo che era una chimica ma non che insieme al marito fosse stata una dirigente della “stazione”. Purtroppo l’ho conosciuta quando avevo 18 anni ed iniziavo il primo anno di Giurisprudenza. Morì da lì a qualche anno e non abbiamo mai avuto occasione di parlare di questo suo lavoro. L’ho scoperto solo dopo, perché quando sei anni fa ho cominciato a studiare questi grani, mia suocera mi raccontò che lei e suo fratello con questi nomi Biancuccia, Russello, Perciasacchi, c’erano cresciuti. I suoi genitori avevano fatto un lavoro di ricerca su queste varietà. Da lì, ho scoperto foto d’archivio, annuari, riconoscimenti governativi, medaglie al valore…».
Un segno del destino…
«Evidentemente sì, tanto quanto lo era mio marito, per cui quando abbiamo visto che tra le 52 varietà di grani antichi siciliani c’era anche la Biancuccia, mi è sembrato d’obbligo chiamare il forno con questo nome anche in omaggio a nonna Bianca e a suo marito Felice cui si devono molti importanti incroci di varietà di grano».
Quante persone lavorano nel suo forno?
«Oltre me, quattro persone, due in produzione e due alla vendita».
“Mollo tutto e cambio mestiere”, molti lo dicono lei l’ha fatto…
«Attorno a questa frase c’è grande poesia. Io, per esempio, immaginavo un cambiamento, se non altro da un lavoro intellettuale ad uno artigianale, ma quello che è stato estremamente faticoso è stato trasformare una passione a velocità “domestica” in una a velocità artigianale. Un conto è fare il pane per la tua famiglia due volte la settimana, un altro farlo tutti i giorni per il pubblico e per la vendita, soprattutto quando non vieni dalla gavetta. Io ho cercato in tutti i modi – e negli anni ho frequentato diversi corsi – di entrare in alcuni forni, proprio per capire la velocità di produzione, i tempi, la logistica, anche solo per vedere le attrezzature e le macchine che avrei dovuto comprare. Qualche porta in Sicilia mi è stata chiusa in faccia, mi prendevano per matta. Capirai… una che a 40 anni viene ti dice “sono avvocato e voglio imparare a fare il pane”, ti prendono per pazza. Poi sono andata tre settimane nel milanese e un ragazzo conosciuto ad un corso con i grandi della panificazione, ha accettato di ospitarmi nel suo laboratorio dove ho capito molte cose. A cominciare dal fatto che non volevo lavorare di notte, cosa cui era abituato a fare lui. La prima macchina che ho acquistato, al di là del forno, è stata una cella di lievitazione che potesse consentirmi di impastare il giorno prima e riprendere a lavorare tranquillamente l’indomani alle 6.30. Grazie alla tecnologia non sono più necessarie le levatacce».
Chi sono i panificatori agricoli urbani?
«Il pane non nasce nel bancone del panificio o al supermercato, ma è un prodotto della terra, perché viene fuori da una materia prima, cioè la farina, ossia dal grano. È gente che cerca di scegliere ponderatamente questa materia prima, artigiani che vogliono restituire al pane il suo valore di prodotto agricolo. I nostri mulini di riferimento sono solo siciliani, il grano arriva da particelle dislocate qui in Sicilia, fra Tumminìa, Perciasacchi, Russello, Maiorca, che utilizziamo assieme ad altri cereali, segale, farro, grano saraceno, perché è importante anche variare».
Quanto pane sfornate ogni giorno?
«Più o meno 50 kg di farina si tramutano in 90 kg di pane, basiamo la produzione su queste quantità, non di più anche per non sprecare nulla. Un panificio standard ha un esubero del 30% per noi sarebbe uno spreco immane. Se resta del pane lo tagliamo sottilmente e lo ripassiamo in forno con olio e sale per farne dei cracker da aperitivo, non si butta nulla. È il frutto non solo del mio lavoro, ma prima di me di quello del mugnaio e, prima ancora, di un agricoltore. Il pane è un prodotto di grande fatica, non a caso i nostri nonni ci hanno insegnato a baciarlo quando cade per terra».
I catanesi come hanno risposto alla proposta del pane “antico”?
«È un momento in cui c’è sicuramente una maggiore attenzione al cibo in generale ed è un momento propizio per poter parlare alle persone. La gente si è stancata di non spiegarsi perché sta male, ha bruciore di stomaco, non digerisce, non dorme la notte se mangia una pizza e, quindi, comincia a farsi delle domande e a dare valore a quello che mangia. Certo, la diffidenza iniziale c’è stata, perché il nostro pane costa di più. Le farine che compriamo costano dieci volte di più (intorno a 2 euro al kg) di quelle utilizzate nella stragrande maggioranza dei panifici. In un panificio “commerciale”, la farina costa 30 centesimi al kg e il pane viene venduto a 3 euro al kg. Il nostro pane base, invece, costa 5,30 euro, al kg. Poi, però, quando le persone ritornano dicendomi che il nostro pane ha ricordato loro il pane di una volta, che ha messo piede qui dentro guidata in strada dal profumo, che il pane dura più giorni, si rende conto che vale la pena spendere di più per avere un prodotto di qualità che si può comprare anche solo due tre volte la settimana».
Secondo lei anche il pane sta diventando una gastro-moda?
«Probabilmente, come in tutte le cose un po’ di moda c’è, anche se io sono convinta che se dietro la moda c’è “fuffa” prima o poi passa. Se, invece, c’è sostanza, rimane come nuovo modello culturale ed esempio da seguire. Io mi auguro che più panettieri passino al lievito madre e al nostro grano. In Sicilia abbiamo la grande fortuna di avere a disposizione varietà di grani a spiga alta che non vengono attaccati dalle muffe e dalle piante infestanti. Solo quando il grano è stato “nanizzato” è stato attaccato dalle infestanti e, per eliminarle, sono stati usati i pesticidi che, inevitabilmente, finiscono dentro il pane».
Il suo pane preferito?
«Di Russello e Tumminìa con semi di zucca girasole, lino e cumino».
Twitter. @carmengreco612