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Giuseppe Mangiameli, il medico lentinese che ha surclassato i colleghi francesi
«Non avevo neanche 24 anni e iniziai subito a frequentare il reparto di Chirurgia generale al Campus diretto dal prof. Roberto Coppola, ordinario di Chirurgia generale, accedendo alla scuola di specializzazione in Chirurgia nel 2008». Cruciale, però, per Giuseppe Mangiameli, l’incontro con il prof. Pierfilippo Crucitti – figlio del prof. Francesco Crucitti che operò 2 volte il Papa – responsabile della Chirurgia toracica al Campus Bio-medico: «È stato colui che mi ha fatto appassionare alla chirurgia toracica. Poiché si parlava di aprire al Campus una unità specialistica, mi suggerì di andare all’estero per formarmi e poterlo in seguito affiancare in questo percorso. Presi la palla al balzo, inviai una serie di email in Francia ed ebbi la fortuna di essere accettato all’Hôpital Européen Georges-Pompidou di Parigi, diretto dalla professoressa Françoise Le Pimpec-Barthes, dove ho completato l’ultimo anno di specializzazione. Mi sono specializzato e nel 2014 sono rientrato a Roma perché nel frattempo era stata avviata al Campus l’unità di Chirurgia toracica di cui Crucitti era il primario. E io ne fui nominato aiuto».
Tutto questo per due anni, fino al 2016, quando Mangiameli, dopo avere acquisito anche il dottorato in Endocrinologia e malattie metaboliche, ricevette la proposta dalla professoressa Barthes, la sua ex primario, per un posto di “chef de clinique”: «Si tratta – spiega il medico lentinese – di una figura particolare che esiste solo in Francia e assimilabile a una fellowship americana. Sono posti compartecipati, pagati in parte dall’università e in parte dall’ospedale, ai quali alcuni dei neo-specialisti accedono per ottenere la massima formazione chirurgica». Lo scorso novembre, così, il dott. Mangiameli ha iniziato la nuova avventura al Pompidou, che durerà due anni rinnovabili di altri due: «Facciamo chirurgia toracica, oncologica in massima parte. Siamo centro di riferimento per i trapianti polmonari, soprattutto pediatrici, in quanto centro di riferimento per la fibrosi cistica». L’obiettivo è di intraprendere la carriera universitaria.
All’inizio di giugno, la soddisfazione della vittoria del “Ctcvstar”, «premio della Società francese di Chirurgia toracica cardiovascolare. Si tratta di un concorso per casi clinici cui partecipano tutte le Chirurgie toraciche e ho avuto la fortuna di essere giudicato il miglior caso clinico presentato in tutta la Francia: si trattava, in particolare, di una chirurgia toracica su un paziente di 95 anni. Come premio ho vinto una fellowship di due settimane che dovrei andare a spendere a Strasburgo tra fine ottobre e inizio novembre prossimi».
Non un cervello in fuga, ma un giovane siciliano che ha saputo cogliere le opportunità che, grazie alle sue capacità, gli si offrivano: «Secondo me – spiega in realtà il dott. Mangiameli – si è trattato di un 50% di necessità e di un 50% di scelta. Un 50% nasce infatti dalle opportunità che si sono aperte col fatto di essermi fatto conoscere. Noi italiani siamo apprezzati perché abbiamo una marcia in più dal punto di vista teorico della formazione e caratteriale e perché siamo dei grandi lavoratori: siamo i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarcene. Un altro 50% nasce invece da un’esigenza, che è quella della formazione chirurgica: se è vero, infatti, che in Italia siamo formati bene da un punto di vista teorico, purtroppo la formazione pratica resta una grande pecca. Da un lato, quindi, la formazione teorica ci rende appetibili all’estero e ci fa ricevere offerte, ma dall’altro siamo obbligati ad assecondarle perché, dopo un piano di studi importante e 10-12 anni trascorsi sui libri, qui trovi chirurghi coi capelli bianchi che fanno fare ai giovani procedure complesse che in Italia farebbero a 45-50 anni o magari mai».
Cosa consiglia allora ai suoi coetanei giovani? «Bella domanda: consiglio di seguire sempre le loro aspirazioni. Mi sono infatti accorto che ci sono persone che si accontentano e, se per loro va bene così, è tutto a posto. C’è però una percentuale di colleghi ai quali non va bene quello che viene loro offerto e quella percentuale di colleghi secondo me non si deve fermare, deve buttare il cuore oltre l’ostacolo, deve andare avanti, perché poi alla fine il sistema, soprattutto all’estero, è non dico meritocratico, ma comunque offre possibilità a tutti. A chi ha la voglia, la forza e lo spirito di abnegazione consiglio allora di andare avanti, perché i risultati alla fine si raccolgono».
Il dott. Mangiameli intende «restare a Parigi almeno 3-5 anni per crescere: ancora oggi, quando torno a casa, mi rendo conto di avere appreso sempre qualcosa in più, accrescendo la mia formazione: fino a quando tornerò a casa consapevole di avere appreso ogni giorno qualcosa in più, vuol dire che la mia curva di formazione non è ancora finita». La speranza, però, è di tornare in Italia, magari in Sicilia, «da qualche porta principale. Vorrei tornare come figura formata che possa offrire un servizio effettivo».
Per non fare fuggire i cervelli all’estero o, ancora meglio, per farli tornare, per il dott. Mangiameli in Italia «deve essere riformato il sistema delle scuole di specializzazione. Anche se qualche passo in avanti si è fatto con il concorso nazionale, secondo me ancora ci si deve lavorare. Io ho l’esempio della formazione specialistica in Francia, dove non si viene assegnati a un’unica scuola, ma dove i medici in formazione ruotano a cadenza semestrale tra le varie sedi. La cosa bella è che non solo si frequenta una scuola, e quindi si apprende, ma il medico in formazione al termine del semestre giudica la scuola stessa, dicendo se questa ha offerto un buon servizio o meno. E questo feedback a livello ministeriale sarà il metro di giudizio che consentirà o meno alla scuola di ricevere un medico in formazione per il semestre successivo. È un circolo virtuoso dove i capi dipartimento hanno interesse a formare le persone, perché poi queste li giudicano. Un sistema del genere presenta inoltre un altro vantaggio: crea una comunità di giovani medici in formazione, perché tutti quelli che sono interessati alla stessa branca, faccio l’esempio della chirurgia toracica, girano nelle varie scuole – in Normandia, in Bretagna, a Parigi – iniziando a creare una vera e propria comunità, con scambi di idee e con un processo di crescita che inizia precocemente».
Impossibile avere rimpianti, così giovane e con un cursus honorum così importante, «anche perché – ammette il dott. Mangiameli – colmo le mancanze e la nostalgia della mia terra con le vacanze estive. Alla fine quello che mi manca della Sicilia è il sole, il buon cibo, però un mese l’anno cumulativo di vacanze trascorse a casa ti permette di ritrovare il tuo equilibrio». Più che rimpianti, quindi, è la nostalgia di casa: «Della Sicilia mi manca un po’ la famiglia, anche se è pur vero che da loro sono stato lontano sin dai tempi dell’università a Roma. E poi con sole due ore di aereo si torna a casa». Più incredibile è l’altro aspetto che manca al dott. Mangiameli della Sicilia: «Forse mi manca proprio la mentalità siciliana, intesa non nella sua accezione negativa, ma in quella positiva del fare comunità, del concetto di piazza e di paese, che sono tutte quelle accezioni positive che purtroppo nelle grandi metropoli vengono meno». O meglio: nelle grandi metropoli estere. «Io – sottolinea – ho vissuto a Roma per tanti anni e Roma alla fine è una grande mamma. Vi abitano moltissimi siciliani, calabresi, pugliesi. Parigi è invece una città un po’ più fredda: se il sabato o la domenica vuoi uscire per l’aperitivo, nella maggior parte dei casi ci ritroviamo tutti italiani. Ma questo è dovuto anche al fatto che la società in Italia è diversa da quella francese: noi trentenni italiani non pensiamo a farci una famiglia, ad avere dei figli, perché non abbiamo il più delle volte la stabilità economica e lavorativa per poterlo fare. In Francia, a 24, 25 anni le persone in linea di massima sono già sposate con figli, perché c’è un substrato sociale che li sostiene, c’è la possibilità del lavoro fisso».
Se della Sicilia manca il senso di comunità, di contro al dott. Mangiameli non manca la parte deleteria della mentalità isolana, cioè «la lentezza dei siciliani, quel modo di fare che è un po’ verghiano del: “poi domani vediamo”. Ecco, questo non mi manca affatto. Come pure non mi mancano i servizi carenti della Sicilia: dopo avere vissuto a Parigi, la differenza è notevole».
Nonostante ciò, la speranza è di tornare in Sicilia «perché alla fine c’è un filo conduttore che ci lega alla nostra terra. Siamo cittadini europei, ma geneticamente restiamo siciliani innamorati della nostra Isola. Resta la rabbia, perché non sono mai riuscito a capire perché i siciliani che vanno al Nord o all’estero, occupando posti di vertice, sono capaci di fare funzionare le strutture, mentre non riescono a farlo da Roma in giù. Non capisco se è un problema strutturale o ambientale, ma è la sfida che mi auguro un giorno di potere affrontare e vincere».
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