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Giuseppe Longo, lo scienziato catanese dell’Ematologia in Texas che sogna di tornare

Ha 61 anni: da “bocciato” dalla Regione Siciliana si è ritrovato “promosso” a dirigere un progetto nel cancer center numero 1 al mondo

Di Giuseppe Vecchio |

Insieme con quelli in fuga ci sono “Cervelli” italiani in continuo movimento per perfezionare la propria formazione, in età matura e oltre. Come Giuseppe Longo, 61 anni, giarrese. Università e laurea a Catania dove, dopo una parentesi di un anno con stages a Parigi, Graz e Berlino e attività clinica presso il Centro Oncologico di Aviano, si è specializzato in Ematologia presso la scuola oggi diretta dal prof. Di Raimondo.

Clinico e ricercatore, ha svolto la propria attività professionale conciliando gli impegni della Ematologia  clinica, svolta in Sicilia, e quelli della Ricerca oncologica svolta negli Stati Uniti, prima come “Visiting Investigator” a New York presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center della Cornell University, e poi come “Professor” sia a New Brunswick presso il Rutgers Cancer Institute of New Jersey  della Rutgers University che a Houston presso l’MD Anderson Cancer Center dell’Unversity of Texas.

Dal 1995 Longo collabora con vari gruppi di ricerca negli Usa, alternandovi periodi brevi a periodi di lunga permanenza per sviluppare progetti di ricerca in ambito oncologico ed emato-oncologico. In Italia, ha iniziato la propria attività clinica presso la Cattedra di Ematologia dell’Università di Catania, allora diretta dal prof. Giustolisi, e successivamente presso l’Unità Operativa di Ematologia del Presidio oncologico di Taormina, dove ha anche svolto le funzioni di direttore dal 2011. Più recentemente, gli sviluppi di una collaborazione scientifica con il prof. Libra e la prof. Stefani del laboratorio di Oncologia traslazionale e genomica funzionale del Biometec di Catania ne hanno consentito il ritorno negli Stati Uniti, un anno fa, come docente all’Universita’ del Texas, presso il prestigioso Md Anderson Cancer Center di Houston, dove svolge attività di ricerca sulla Leucemia acuta e sull’Osteosarcoma. L’ultimo incarico lo ha svolto in Italia, come primario facente funzioni, nel reparto di ematologia dell’ospedale di Taormina. 

Può chiamarsi fuga, la sua? La definirei più una “pausa” che una fuga. Certamente, se le condizioni in cui ci siamo trovati ad operare negli ultimi anni fossero state diverse, ci avrei riflettuto un po’. Però, viste e subite le scelte fatte in campo sanitario a livello regionale, non appena è arrivata da Houston l’offerta di guidare il progetto, non me lo sono fatto ripetere due volte. L’MD Anderson Cancer Center di Houston è il primo centro per la cura dei tumori negli Usa e il più grande al mondo; era difficile dire di no. Nonostante le difficoltà che si generavano sul piano personale e familiare non ho avuto molto da ripensare su ciò che potesse riguardare la mia attività professionale in Italia. Del resto, la mia scelta non ha sollecitato alcuna “resistenza” né “controproposte valide” da parte dell’amministrazione da cui dipendevo, che non ha considerato degna di attenzione, nonostante i notevoli risultati raggiunti, l’attività che era stata svolta a Taormina fino a quel momento. E così, dopo essere stato “bocciato” dalla Regione Siciliana, mi sono ritrovato “promosso” a dirigere un progetto nel cancer center numero 1 al mondo. Tuttavia, ho deciso di andarmene con un po’ di amaro in bocca perché veniva vanificato il mio ennesimo tentativo di rimanere nella mia terra. Devo dire però che, quando mi muovo tra Italia e Stati Uniti, non sento dentro di me differenze particolari. Ho vissuto molti anni in entrambi i Paesi, mi sono familiari e li amo entrambi. Non vivo mai questa situazione come una fuga dall’Italia. L’Italia è il mio Paese, gli Stati Uniti anche.

La famiglia l’ha seguito, l’ha appoggiato, ha risentito di questo suo “continuo movimentismo formativo”? Ho avuto la fortuna di avere una moglie che mi ha sempre assecondato e seguito in queste scelte. Abbiamo quattro figli (una è cittadina americana perché è nata a New York) che inevitabilmente hanno vissuto la loro vita tra Italia e Stati Uniti. Hanno studiato sia in Italia che negli Usa, adattandosi ai diversi sistemi sia educativi che sociali. Non so se sia stato facile per loro, non me lo hanno fatto pesare comunque. Hanno assorbito bene il bilinguismo e la società multirazziale e multiculturale, con tutte le differenze delle diverse religioni. Molti dei nostri amici più cari sono ebrei. A scuola i miei figli andavano bene, ma è mia moglie che ha il merito di tutto questo. Le mie figlie attualmente vivono in Sicilia. Le due maggiori hanno scelto la mia stessa strada professionale, la minore si è appena laureata in Economia. Il più piccolo frequenta il primo anno di High School a Houston. 

Si può dire che concluderà la sua carriera medica e accademica con questa ulteriore permanenza negli Usa? O ha altri programmi? Ho deciso da tempo di non guardare più l’anno di nascita nel mio documento di identità. Mi faccio guidare dall’entusiasmo e dalle occasioni. Le variabili sono la salute e l’energia. Faccio molto sport e, quando trovo acque calde, sto ancora bene sulla tavola da surf. Qualche mese fa ho subito la perdita del mio maestro e mentore che, ad oltre 91 anni di età, era il direttore scientifico del Rutgers Cancer Institute. Una collaborazione trentennale con un “gigante”. Per me è stato un’ispirazione e un modello. La risposta alla prima parte della domanda è: non credo. Alla seconda: tutti quelli che verranno.

A 61 anni lei continua ad aggiornarsi, mentre gran parte dei suoi colleghi coetanei pensano alla pensione. Cosa la motiva così tanto? La professione medica al giorno d’oggi è intensamente logorante. La maggior parte dei colleghi va in pensione dopo essere stata sottoposta a grandi sacrifici fisici e psicologici. Ciononostante i medici, com’è notorio, restano impegnati in attività varie per molto tempo anche dopo la pensione. Passione, curiosità e Speranza sono le mie motivazioni interiori. Le prime due sono state compagne costanti di questo mio percorso e mi hanno sostenuto soprattutto nei momenti difficili. Senza una passione incrollabile e una profonda curiosità non avrei mai potuto affrontare questo viaggio. Probabilmente sono queste parti del mio carattere che hanno fatto in modo che accoppiassi l’attività clinica alla ricerca scientifica. Negli ultimi anni si è fatta strada un’altra motivazione, che è legata alla speranza. Questa è un tema ricorrente nel mio quotidiano ed è parte integrante della mia religiosità. Accosta il profondamente razionale, che pratico per “comprendere”, al divino che percepisco ma che mai comprenderò. La speranza mi conforta e mi incoraggia ad aver fiducia che tutto questo ha un senso e una sua utilità per me stesso e per i pazienti. 

Quali sono le differenze tra il sistema ospedaliero americano e quello italiano. E qual è l’assistenza sanitaria pubblica più funzionale ed efficace? Gli Usa sono una confederazione di Stati che hanno regole diverse per cui il sistema è molto variegato. Si può grossolanamente dire che ciò che regola tutto è l’economia dello Stato in cui si vive, per cui il cittadino povero che vive in uno stato con grandi mezzi economici, come il Texas per esempio, ha accesso ad un livello alto di cure che in molti Stati economicamente più deboli non è erogabile. Agli occhi di noi Italiani il sistema è iniquo. Il nostro Sistema sanitario nazionale è un bene di immenso valore, un patrimonio di cui tutti i cittadini italiani dovrebbero andare fieri, che andrebbe difeso ad ogni costo e che molti Paesi, Usa compresa, ci invidiano. E’ lo specchio della civiltà del nostro Paese. Garantisce tutti  e non guarda la dichiarazione dei redditi. E’ di alta qualità per tutti e le procedure diagnostiche e terapeutiche sono coerenti e riproducibili su tutto il territorio nazionale. Andrebbe potenziato e gestito diversamente anziché ridotto, attraverso scelte sbagliate, al fantasma di se stesso. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA