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Giuseppe Distefano, «L’Etna è tutto per me ma va difesa dai vandali». Il videofotoreporter con le sue immagini mostra la bellezza del Vulcano nel mondo
Catania. «Vediamoci alle 3 di pomeriggio, a quell’ora la luce è più tenue». Giuseppe Distefano conosce la luce dell’Etna di qualsiasi ora. La studia, la cattura, la interpreta, nelle sue foto e nei suoi video da vent’anni. Un amore nato «da un problema», come ama dire, «alle Medie a Tremestieri eravamo sfigati, non avevamo la palestra, e così il prof di educazione fisica, Piero Pizzo, occupava l’ora facendoci vedere in classe le diapositive dei suoi viaggi, bellissime foto subacquee soprattutto. Il 90% della classe si estraniava, io ero estasiato. Da lì ho chiesto una macchina fotografica ai miei genitori e ho cominciato a fare foto. Al primo anno di liceo vinsi un concorso fotografico, mi ricordo ancora il premio, uno Swatch».
Ma non era ancora “colpo di fulmine”. Il vero incrocio di passioni fotografia-Etna è avvenuto dopo, all’alba di una notte stellata trascorsa sul vulcano «mi colpì molto il modo in cui la luce cambiava il prospetto della montagna».
Da quel momento l’Etna è diventato il principale soggetto fotografico di Distefano, ma non tanto – e non solo – quella fetta di “Muntagna” diventata patrimonio dell’umanità nel 2013, vale a dire quella oltre i 2.500 metri, ma anche e soprattutto, quella più “accessibile”, a rischio antropizzazione, a rischio degrado, a rischio discarica, cioè i tre quarti del vulcano.
«L’Etna è tutto per me – dichiara Distefano -. È la prima cosa che vedo la mattina quando mi sveglio e l’ultima prima di andare a letto. Guardo il terrazzo e dico, ok non c’è niente… posso andare a dormire. Questi ultimi due mesi mi sembrava di vivere in caserma, saltavo giù dalla branda ogni volta che il mio collega mi telefonava per andare a fare qualche ripresa nel cuore della notte. La levataccia è pesante, ma poi torni a casa e non vedi l’ora di risalirci. Una notte guardavo tre fontane di lava, erano così violente che mi sembrava di essere dentro una bolla in slow motion, invece era tutto dal vivo e io lo vedevo al rallenty, come se mi discostassi da quello che avevo di fronte».
Giuseppe Distefano con la sua cagnolina “Hop”
«Ogni volta che gli stranieri vengono qui hanno uno shock – racconta Distefano – perché una discarica la trovano sempre e questa è la peggiore pubblicità che possiamo fare all’Etna. Eppure la stessa attenzione che hanno i media stranieri, non riesco ad ottenerla con i giornali italiani, spesso utilizzano foto e immagini d’archivio che non c’entrano nulla».
Giuseppe Distefano accompagna le troupe televisive e documentaristiche di tutto il mondo sui set naturali offerti dal vulcano. «Dall’estero arriva tanta gente preparata come Martin Rietze che ha fotografato tutti i vulcani del mondo, ci siamo scritti più volte, per me è un punto di riferimento».
In quest’ultimo anno di pandemia sull’Etna hanno solo girato un film ed è mancato il “traffico” di troupe televisive e documentaristi che almeno dieci volte l’anno vengono a girare sul vulcano. «Io li accompagno per individuare i luoghi migliori dove girare, un documentario che va fuori dall’Italia e gira per le tv di tutto il mondo è una pubblicità pazzesca, ma in quest’ultimo anno le immagini le abbiamo fornite noi perché non poteva venire nessuno. I più interessati sono i tedeschi, poi gli inglesi per il canale tematico della Bbc, giapponesi e americani».
Di fronte a tanto interesse, diventa ancora più insopportabile il modo in cui noi, i locali, trattiamo il territorio del vulcano. «Tanta gente ha a cuore l’Etna – sostiene Distefano – ma purtroppo siamo in minoranza ed emerge solo chi sale qui per accendere fuochi, fare la scampagnata e lasciare la busta di spazzatura attaccata a un albero. Come associazione (Etna Walk ndr) abbiamo organizzato anche iniziative di pulizia straordinaria portando qui persone che si sono messe a riempire sacchi di rifiuti, ma poi non c’è presidio, non c’è controllo e anche quei pochi che si prestano ad un certo punto non vengono più. Tempo fa abbiamo fatto un video di rottura sulla musica di “Happy” (il pezzo di Pharrell Williams che ha spopolato nel 2013 ndr) e ballavamo sui rifiuti che trovavamo sull’Etna, l’avevamo chiamato “HAPPYzzamu”, mi hanno accusato di aver sputtanato l’Etna. Io sono estremista. Fosse per me recinterei tutto e metterei dei check point nei punti di accesso, non per “vietare”, ma perché penso che forse è l’unico sistema per far capire alle persone che questo è un posto da tutelare. L’accesso libero, di fatto, ne fa una terra di nessuno. Non è detto che il 25 aprile migliaia di persone debbano salire tutte sull’Etna. A marzo durante uno dei parossismi che dovevo documentare, sulla Mareneve c’era un traffico da circonvallazione, se si fosse verificata una caduta di materiali com’è poi accaduto qualche giorno dopo, ci sarebbe stato il panico ed eravamo in zona arancione e alle 23.30».
Ma non di sole eruzioni è fatta l’emozione di filmare l’Etna, c’è anche la sfida di filmare la fauna. «Stiamo “inseguendo” il gatto selvatico rivela Distefano – prima che le ibridazioni con i gatti comuni lo facciano sparire. Abbiamo dei punti di riferimento perché sono animali abbastanza stanziali, ma è una specie che ha tutte le fisime del gatto comune moltiplicate per cento volte. Se c’è luna piena non si fa vedere, se c’è vento nemmeno… è un animale che si muove spesso di notte e non è facile beccarlo, lo stiamo pedinando faticosamente da quasi un anno nella speranza che non si spaventi, è l’animale più elusivo e più timido che io conosca».
L’immagine come strumento per raccontare un territorio e tutto quello che lo fa vivere è stella polare nel lavoro di Distefano, a partire da ciò che è stato documentato. Il suo sogno è raccogliere e catalogare tutto questo materiale. «Qui sull’Etna c’è una tradizione di immagini pazzesche, oggi scattano tutti con le digitali, ma una volta erano in pochi. Ci sono guide alpine dell’Etna oggi in pensione che hanno un patrimonio per le mani. Ho scanzionato già 10mila diapositive, un vero archivio storico che mi piacerebbe ampliare e rendere visibile. Non si può pensare di vedere le foto solo in digitale, c’è anche bisogno di vederle fisicamente. Nessuno ha mai costruito realmente una cronistoria di quello che è successo sull’Etna negli ultimi 50-60 anni un periodo che per noi è tanto ma che per l’Etna è niente. Sarebbe bello fare un museo di tutte le immagini dell’Etna. Mi piace molto l’idea di poter vivere quello che non ho vissuto io».
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