Francesco Foti: «Sono un siciliano anomalo affezionato a tutti i ruoli interpretati»

Di Gino Morabito / 21 Gennaio 2024

Due gli obiettivi: evitare le fossilizzazioni e mettersi sempre alla prova. Teatro, cabaret, pubblicità, radio, cinema, televisione. Il mondo del catanese Francesco Foti è fatto di studio, letture, laboratori. Orgoglio made in Sicily con un talento versatile esportato anche all’estero, continua a dare prova d’attore rendendo ogni personaggio descritto sul copione una persona reale.

Per dirla con Paul Auster: “Nulla è reale tranne il caso”.
«È una citazione che fa parte della mia vita. Non so se sia la realtà, ma la realtà – per quello che mi riguarda – è molto casuale. Sempre ammesso che esista il caso».

La sua realtà familiare di cosa è fatta?
«Non c’è più mio padre e cerco di stare il più possibile nella città dove vive mia madre. In questo momento abito a Milano, dove si trovano anche mio fratello e le mie due sorelle che fanno la spola con Catania».

Figlio di emigranti contromano, i suoi genitori nordici si spostano in Sicilia per lavoro. Dunque, Catania come New York!?
«Catania è l’uncino attaccato che mi porto sempre dietro ovunque vada. Ma il mio essere un siciliano anomalo mi dà anche la possibilità di sentirmi a mio agio un po’ dappertutto. New York è stata un’illuminazione, l’innamoramento che l’ha fatta diventare una città del cuore».

Nel 2011 porta in scena “Niuiòrc Niuiòrc”. Uno spettacolo, da lui stesso scritto e diretto, che sbarca anche nella City americana per un mini tour che registra un ottimo successo di pubblico e di critica.
«È uno spettacolo tratto da decine e decine, forse centinaia, di pagine di appunti e storie che avevo scritto quand’ero lì. L’ho messo in scena a New York per ben due volte, realizzandone peraltro una versione, metà in italiano e metà in inglese, che mi ha tenuto abbastanza in allarme finché non si è fatta la prima. La standing ovation finale non me l’aspettavo, ed è stata un’emozione fortissima».

“Sono nato col sacro fuoco”, “ho sempre voluto fare l’attore” e “facevo ridere i miei compagni di classe con le imitazioni dei professori” sono frasi che non lo riguardano!?
«Per carità, capitava di far ridere i miei compagni, ma non ero il buffone della classe. Così come, quando da piccolo andavo a teatro, spesso mi annoiavo».

Sarebbe interessante capire come proporre il teatro ai ragazzi per non bruciarli. Lei che ne pensa?
«Non perché i ragazzi di terza media stanno studiando Pirandello, devono necessariamente vedere “Sei personaggi in cerca d’autore”. Forse sarebbe opportuno accompagnarli a qualche spettacolo che sia più alla loro giovane portata. Tenerli tre ore seduti, nel tentativo di farli restare il più possibile zitti e fermi, è controproducente: nel 99% dei casi li hai persi. E non ci vorranno più tornare. Credo sia meglio, invece, se si proponesse loro un corso di teatro, possibilmente tenuto da qualcuno che glielo sappia raccontare, magari facendoli anche ridere».

Cosa le piacerebbe riuscire a trasmettere alle nuove generazioni?
«L’importanza della puntualità, del rispetto, della serietà contrapposta alla cialtronaggine e all’approssimazione che sta divenendo sempre più la parola d’ordine, non solo nel mio mestiere ma nel nostro sistema sociale».

La vera questione è che ancora oggi, purtroppo, si cerca di insegnare che certe cose sono giuste e normali. E invece non sono né l’una né l’altra. In Sicilia ne sappiamo qualcosa.
«La Sicilia mi ha sempre dato la sensazione di essere la lente d’ingrandimento dell’Italia. Probabilmente questa terra ha quanto di più bello esiste nel nostro Paese, la natura, il cibo, la cultura, ma anche i lati peggiori. Il tutto ingigantito».

Poi ci sono quelle cose che ci diciamo per andare avanti…
«Mi ripeto, ad esempio, che si può sempre migliorare e che certa gente non è poi così cattiva come sembra. Continuo anche a raccontarmi la bugia che c’è speranza».

L’atteggiamento tipico di chi è poco avvezzo agli slanci di entusiasmo?
«Il mio non è pessimismo ma osservazione obiettiva della realtà. È difficile che abbia esplosioni di entusiasmo. Sì, certo, quando arriva una bella notizia esulto. Ma poi ne prendo coscienza, pondero, cerco di vagliarla sotto diversi punti di vista e di rimanere con i piedi per terra».

Di motivi per esultare ce ne sono comunque parecchi. Negli anni ha lavorato, tra gli altri, con Giuseppe Tornatore in “Baarìa”, con Roberto Faenza in “Alla luce del sole” e con Giuseppe Piccioni in “Fuori dal mondo”. Ha recitato ne “Il commissario Montalbano”, “Il capo dei capi”, “Squadra antimafia”, “Un medico in famiglia”, “Il cacciatore”, solo per citare alcune fiction di successo. C’è un ruolo al quale è particolarmente legato?
«Sono affezionato a tutti i ruoli che ho interpretato, anche a quelli piccoli. Perché per ognuno di loro ho speso tempo ed energie. Indubbiamente, quello che mi è rimasto particolarmente dentro è Carlo Mazza delle tre stagioni de “Il cacciatore”. Una “persona” che mi ha tenuto compagnia per quattro anni ed è legata alla nostra storia – non solo a quella della Sicilia ma anche dell’Italia – e a quel senso di onestà, dello stare dalla parte giusta, che credo mi appartengano molto».

È protagonista del corto “Notti d’estate” su Paolo Borsellino, un piccolo gioiello presentato in prima nazionale al “Catania Film Fest” lo scorso novembre.
«Tutto è partito da una canzone su Paolo Borsellino scritta da Davide Carabellese, un ottico di Molfetta che riesce a mettere su una troupe che vede me, Manuela Ventura, Corrado Fortuna e Dajana Roncione come attori; la fotografia di Daniele Ciprì e la regia di Riccardo Cannella. L’idea era quella di un omaggio onirico che esaltasse il lato più umano del giudice. Ne viene fuori un corto, dove io interpreto Paolo, con la sceneggiatura di Giuseppe Paternò Raddusa e il tema principale cantato da Giò Sada. Sentire poi Fiammetta Borsellino complimentarsi con noi per essere riusciti a far emergere l’umanità del padre, è stato il miglior premio che potesse arrivarci».

Tra le ultime interpretazioni, particolarmente apprezzata quella di Vittorio De Sica nel film “Permette? Alberto Sordi”. E ancora è il colonnello Quinto Valente nella serie televisiva “Il metodo Fenoglio”, il principe Romualdo Trigona ne “I leoni di Sicilia” e recita in italiano e in inglese nella produzione internazionale “Ripley”, tra le “limited series” più attese di Netflix. In tutta onestà, crede si sia trattato davvero di un caso?
«Non credo. Forse è un caso che io abbia scoperto la strada. Ma il fatto che poi abbia raggiunto questo livello è frutto di tenacia, costanza e tanto, tantissimo sacrificio».

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Pubblicato da:
Carmela Marino