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Filippo Drago, un mugnaio doc tra passato e futuro

Di Maria Ausilia Boemi |

In principio fu l’idea che coniugò tradizione e innovazione, scegliendo il meglio dell’una e dell’altra: così il mugnaio di quarta generazione Filippo Drago, 49enne di Castelvetrano Selinunte, ha ridato slancio alla sua azienda Molini Del Ponte – grani antichi moliti a pietra naturale. Sposato, un figlio di 9 anni, Filippo Drago lavora in azienda dall’ottobre 1991 quando, di fronte al progetto del padre di chiudere tutto, lasciò l’università e prese le redini dell’azienda, che il padre gli cedette. Trasformando così in lavoro quello che, fin da bambino, era stato il suo personale «parco giochi: a 8 anni, per la prima volta, ho messo in marcia il mulino».

«Il mio bisnonno – racconta Drago – era cocchiere a Marsala e commercializzava farine e pasta dei mulini del posto. Quando sposò la mia bisnonna, che era di Castelvetrano, si trasferirono qui e, a metà degli anni ’60, riuscirono a mettere su un mulino proprio. L’attività artigianale passò di padre in figlio, fino ad arrivare a me: noi oggi siamo artigiani, ma artigiani industriali, con tutte le certificazioni e macchinari all’avanguardia».

Le macine a pietra sono quindi affiancate da moderni macchinari che garantiscono la perfetta igiene delle farine prodotte, cosa non così scontata: «Quando si trebbia, col grano si raccolgono tutti gli animaletti dei campi. E se non ci sono sistemi rigorosi, moderni, sicuri, efficaci che eliminano questo ben di Dio naturale, quando si macina finisce tutto nelle farine e poi nello stomaco di chi mangia». Filippo Drago ha allora deciso di avvalersi dei migliori tecnici molitori e impiantisti in Italia: «Ad esempio, il mio impianto molitore è stato fatto da Vito Russo, che in questa arte è un re indiscusso. Ho utilizzato tutte quelle tecnologie costose e attuali che hanno fatto diventare le mie farine artigianali delle farine sicure. E per me è un motivo di vanto il fatto di avere tutto quello che hanno le industrie – in termini di igiene e sicurezza – applicato alla mia produzione artigianale. Poi io mi rifiuto di utilizzare enzimi, di migliorare e stabilizzare le farine, quindi produco farine naturali, tanto che le chiamo “spremute di grano”».

Accanto all’innovazione, però, un ritorno alla tradizione con i grani antichi siciliani che, se oggi vanno tanto di moda, non altrettanto accadeva alla fine degli anni ’90: «Ho iniziato a vendere grani antichi – partendo con la tumminia e un po’ di russello – in Veneto nel 1999. Oggi si considerano tutti precursori in questo campo, ma non è così». La svolta fondamentale avviene nel 2002, in un incontro Slow Food a Caltanissetta, dove Filippo Drago conosce la dottoressa Giulia Gallo, allora direttrice della Stazione sperimentale di granicoltura di Caltagirone. Lì scopre che negli anni ’30 l’agronomo Ugo De Cillis aveva scritto un libro su tutti i grani siciliani: «Abbiamo oltre 50 varietà locali, una realtà unica al mondo per biodiversità in un territorio così piccolo come la Sicilia. L’intuizione è stata di chiedere alla dottoressa Gallo se io, con un gruppo di contadini amici, potevamo avere dei sacchetti di quei grani (perciasacchi, biancolilla, maiorca e così via) per tornare a seminarli».

In un’azienda che, per la difficoltà di essere pagati dai clienti, rischiava di chiudere, l’intuizione di mettere insieme antico e moderno si è rivelata vincente. Ma non facile, soprattutto in Sicilia: «Il mio cliente tipo è il fornaio, il panificatore. Io lavoro in Sicilia, ma il mio mercato di riferimento è il Centro-Nord, dove va quasi tutta la farina, perché è lì che è nata la sensibilità di utilizzare farine a km zero. Nel dicembre 2004 ho comunicato ai miei clienti che avrei smesso di lavorare con grani importati e avrei macinato solo grani siciliani. Lo sa cosa è successo? Il 100% dei miei clienti siciliani mi voltarono le spalle, dicendo che se non mettevo più canadese o francese, la mia farina era letame, perché non aveva più quei grani che la rendevano trasformante e quindi facile da utilizzare. Il mio lavoro si spostò così dalla Sicilia al Nord Italia».

Solo negli ultimi tempi la Sicilia ha compreso la qualità dei propri grani antichi, persino troppo, secondo Filippo Drago, che denuncia che «vanno molto di moda i grani antichi, ma non il loro utilizzo. Dietro la pizza di tumminia spesso non c’è la tumminia (o c’è solo in parte), ma il nome sull’etichetta. La stessa cosa per il pane: un pane alveolato, morbidissimo, con dei buchi enormi spacciato per realizzato con tumminia, è falso. Ma anche la non conoscenza delle tecniche dell’impasto spesso porta i panificatori a fare cose orrende».

Anche a causa di un vuoto legislativo: «Oggi sono tutti molitori, tutti mugnai, tutti usano farine antiche. Se lei domani compra un frullino e inizia a produrre 10 chili di farina al giorno, può scrivere sul pacchetto di farina: macinata a pietra. Non è così: è frullata a pietra, non macinata. Questo vuoto legislativo permette la commercializzazione di tante farine che spesso sono fuorilegge».

Grani siciliani, quindi, a km zero: «Ho portato avanti un progetto che si chiama “grani d’autore” con cui affianco al mio anche il logo dell’azienda agricola che ha prodotto il grano, in modo che il consumatore conosca tutta la filiera e per comunicare che l’ingrediente principe del nostro lavoro è la Sicilia». Farine apprezzatissime, tanto da essere utilizzate da chef stellati come Cuttaia, Sultano, Accursio e Lo Coco.

Grani siciliani, ma non necessariamente antichi: «La tumminia è antica, era coltivata dai greci 2.700 anni fa, anche se certamente quella di oggi non è più quella di allora. Il senatore cappelli non è invece un grano antico, ma è stato creato – peraltro in Puglia – nel ’900, su richiesta di Mussolini che voleva aumentare le rese dei campi per diminuire le importazioni».

 

Oggi, invece, si assiste al paradosso di «aumentare le importazioni e trasformare le aree seminative in boschi, incentivando l’abbandono dei campi: una politica scellerata, dettata dalle multinazionali. In Sicilia abbiamo 400mila ettari di seminativo a grano e più della metà sono abbandonati. E compriamo canadese perché il panificatore mediocre vuole la farina canadese. La mia farina la prende invece il panificatore di Milano che vuole solo siciliano perché ha studiato».

Per questo, sorretto dalla forza dell’ottimismo, dal prossimo autunno Filippo Drago organizzerà dei corsi di panificazione in Sicilia. Tra gli altri progetti in corso, il restauro di un magazzino da destinare a laboratorio per demo e degustazioni di prodotti locali, e di una nuova location per altri 6 mulini a pietra (portandoli così a 10).

Le maggiori difficoltà, soprattutto in passato, erano «essere pagati dopo la vendita e i costi di spedizione maggiori rispetto ad altri posti». C’è poi la piaga della concorrenza sleale: «È difficile fare accettare delle farine a un giusto prezzo (con tutto il personale – 8 interni, 4 esterni, più gli agenti – in regola e quindi costi maggiori rispetto a chi lavora nell’illegalità) rispetto alle farine truffa». A questo fanno da contraltare le soddisfazioni, i riconoscimenti della stampa di settore ma anche di colossi come il New York Times. Perché La Molini Del Ponte esporta negli Usa, in Australia, in Inghilterra e, tramite il web, ovunque.

Nessun rimpianto, visto che Filippo Drago ha avuto la fortuna di «continuare il mio gioco dell’infanzia trasformandolo in lavoro». E ai giovani, lui che non lascerebbe mai la Sicilia, consiglia di «guardarsi intorno e scoprire la miniera d’oro che c’è in questa Isola. Io ho reinventato il mio lavoro attraverso un’idea. Se non si hanno idee, non si va da nessuna parte. E poi essere pronti all’innovazione. Io non condanno chi se ne va perché magari il suo sogno non si può realizzare qua, condanno invece chi vive qui e si piange addosso, sperando che qualcun altro risolva il problema».

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